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Dalla colpa alla responsabilità

Giugno 4, 2015 Posted by Carceri 0 thoughts on “Dalla colpa alla responsabilità”

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Dalla colpa alla responsabilita’
Il carcere deve essere un luogo di lavoro su se stessi, dentro se stessi, sui propri
legami di vita, sulle proprie scelte e decisioni.
di Giuseppe Ferraro

Il tempo non è uguale per tutti. C’è chi “ce ne mette di più e chi meno”. Si dice così “c’è chi ne impiega di più e chi meno”. A scuola si capisce presto. Ci sono quelli che apprendono velocemente una materia e chi ha bisogno di più tempo, magari poi lo stesso ne ha bisogno di meno per una diversa applicazione. “Dammi tempo”, “ho bisogno di più tempo”, “faccio subito”. Sono espressioni che conosciamo per averle riferite tante volte noi stessi. E quante volte i ragazzi, in casa, si prendono tempo o vanno di corsa. Il tempo non è un equivalente generale. Il denaro lo è, e per quanto si dica che il tempo è denaro, non è lo stesso quando si tratta di Sé, dei propri affetti, della conoscenza di se stessi, delle proprie scelte morali e decisioni di vita. Il tempo non è il denaro, anche se il denaro si misura sul tempo di  produzione. Ne indica il costo. La pena è un costo da pagare. Deve essere allora proporzionata al tempo che s’impiega per capire, per scontarla, per espiare, per passare dalla colpa alla responsabilità. Il carcere deve essere un luogo di lavoro su se stessi, dentro se stessi, sui propri legami di vita, sulle proprie scelte e decisioni. Il carcere deve poter essere un luogo d’istruzione della libertà.
Quanto tempo occorre a un uomo per capire se quel che ha operato è stato giusto o sbagliato? Quanto tempo occorre per rimediare? Non si può allora decidere il tempo della pena senza tener conto della persona. Siamo fatti di tempo, esprime la nostra singolarità. I sentimenti sono fatti tempo. Lo sappiamo quando riserviamo tutto il tempo a chi amiamo e quando non abbiamo tempo per chi ci è estraneo o che ci lascia indifferente. Il tempo è la materia dei sentimenti, e il lavoro su se stessi riguarda i propri legami. Lasciarsi o incontrarsi è cosa che riguarda il tempo proprio. Quanto allora costa un crimine e un misfatto, un errore o una follia, un torto o un imbroglio, un omicidio e un furto? Il codice stabilisce il prezzo in tempo che si ferma. Devi fermare il tuo, non dare il tuo. Bisogna rifletterci. La pena si paga a costo di tempo, ma non è il tempo che si dà, perché è quello che si toglie. Si misura in anni. E se provassimo a pensare al tempo che dà? E come si dà il tempo se non operando, rimediando come persona, come relazione, come legame, perché il tempo è questo che procura, opera, lega, relazione. Dare il proprio tempo significa dare se stessi nell’operare. Ed è curioso che la parola “ergastolo” indica dalla lingua greca un costo d’opera, una pena di lavoro.
Dare il proprio tempo significa lavorare su se stessi perché la propria dignità conquistata, ripresa, rimediata dia ragione e restituisca senso a quel che non ha senso. La giustizia è restituzione. Bisogna restituire il proprio tempo come proprio dell’altro al quale si è tolto il tempo di vita o di passione, di lavoro o di occasione, di dignità e di persona. In uno stato di diritto, la pena deve essere un diritto, quello di ripensare se stessi per passare dalla colpa alla responsabilità. Si è responsabili quando si risponde di sé, si dà responsabilità quando si dà restituzione. Una giustizia di responsabilità è di restituzione.
Non sarà mai come restituire quel che si è preso e tolto a chi si è defraudato o ucciso. Non si restituisce il maltolto senza che si sia diventato altro da quel che si è preso, né si può restituire vita a chi non è più in vita. La restituzione quale che sia è imperfetta. Si può dare solo nella forma imperfetta. Al verbo dell’imperfetto. Al tempo dell’imperfetto. Quello del racconto. Si deve raccontare la propria vita, si deve fare della propria vita il racconto di un percorso per una storia che comincia la propria vita da capo, a partire da quel che non si è stato per essere se stessi. La restituzione è nella collaborazione sociale di giustizia. Chi è stato ingiusto deve farsi racconto di giustizia, deve poter fare del proprio tempo il racconto del giusto. Si diventa giusti. E chi è stato contro la Giustizia deve farsi giusto, è condannato a essere giusto. Ed è una condanna che viene da dentro, se si danno le condizioni per esprimerla. Se invece sono ingiuste le condizioni per chi è stato contro la Giustizia, non c’è rimedio, non c’è restituzione, non c’è pena che rientri nel diritto di Giustizia.
In carcere il tempo stagna. Rafferma. La sicurezza si concepisce nel rimando del fare niente perché niente succeda. Si toglie tempo, si taglia in parti uguali, si cementa, il carcere dimentica. Anche quello che richiedi sul momento, si dimentica, si somministra l’oblio, perché tutto sia tranquillo, perché ci si abitui a fermare il tempo. L’arresto tante volte ho pensato che fosse l’arresto del tempo proprio. In carcere è recluso il tempo proprio, i propri sentimenti, i propri legami. Eppure il carcere è un luogo di libertà, ripetevo l’altro giorno, il carcere è il luogo, dove ci s’istruisce alla libertà. Può esserlo, può diventarlo, in certi casi è tale. Ci sono persone che fanno presto ad apprenderlo e ci sono di quelle che non lo apprenderanno mai.
Come sempre però nei casi in cui ne va dell’apprendere a prendere il “brutto voto” è dapprima chi insegna, chi istruisce, quando deve fare conto del proprio successo educativo o della propria sconfitta, quando non è riuscito a riportare dentro il cerchio dell’inclusione sociale chi ne è stato escluso perché aveva deviato da quel campo coltivato della società. Si chiama “socialità” il campo d’esercizio di una tale “istruzione” in carcere.
Giovanni mi scrive ogni giorno. Gli ho detto Giova’ non è che posso risponderti ogni volta, però tu continua a scrivere, perché chi scrive si iscrive nella grammatica del testo per essere leggibile. E la legge è tale perché legge, perché vuole che ci si esprima in maniera leggibile. Spesso quelli che sono reclusi per associazione non sanno scrivere, non sanno neppure cosa significa prescritto o iscritto, derubricato, declassato.
Giovanni mi scrive ogni giorno. Sono anni ormai. Venne al corso di etica che tenevo a Carinola e fu sorpreso del clima di amicizia che si respirava. Il corso funzionava già da anni e continua, altrove o per corrispondenza. Salvatore è a Catanzaro, e gli mancano quegli incontri, ne parla con tutti quelli che trova, li tiene a ripetizioni, fa supplenza. L’altro giorno mi ha scritto che ci sono persone in carcere che dopo tanti anni si chiedono ancora delle carte del processo, senza domandarsi del perché sono in prigione. Salvatore non è più quello che ho conosciuto all’inizio. Giuseppe poi ha fatto un percorso semplicemente ammirevole. Gavino ancora, la sua dolcezza, la sua delicatezza. Posso continuare. Sono in grado di dire con assoluta certezza e responsabilità i nomi di quelli che potrebbero ben essere dichiarati collaboratori sociali di giustizia, persone che possono dare un contributo non indifferente a combattere la guerra sociale di mafia, perché di un processo educativo si tratta. La libertà di un Paese si misura dalla qualità dei legami sociali. Di questi si ha bisogno e di questo si fa istruzione, e si deve, in carcere.
Giovanni mi scrive ogni giorno. Per quanto grosso fisicamente da far paura a vedersi, un gigante, è un timido di una vulnerabilità inquietante, un mammone, si direbbe, come Patrizio che parla della sua mamma e si commuove ogni volta al pensiero. Giovanni non parlava in pubblico e aveva problema ad aprirsi, semplicemente perché è persona d’intimità. Aveva timore che altri potessero non capire e come accade sempre in carcere devi mostrare agli altri la forza che non hai. Lui poi è un timido. Allora mi scrive. Gli ho detto che chi scrive si pone in uno stato interiore, in un tempo proprio. Continua a scrivere gli ripeto, perché chi scrive, parla dentro se stesso. Si parla. Ascolta. Ed è questo il passo che deve avere l’istruzione alla libertà.
Parlarsi. Avere un Sé ed essere se stesso come mai si è stato e come ti hanno lasciato e non ti hanno fatto diventare. In carcere ho capito che è libero chi riceve ascolto. Chi non è ascoltato non è libero.
Il carcere è una comunità reclusa, ma non può essere esclusa. La reclusione, se è data all’interno dell’inclusione, deve mantenere una tale funzione di sospensione del tempo proprio perché si ristabilisca un legame sociale perduto. La reclusione deve essere riparativa, il carcere deve poter essere un’officina, una bottega, una scuola. Nel linguaggio scolastico si diceva anche degli esami di riparazione. E non avrebbe certo dovuto essere una “condanna” o una “punizione”, ma un’aggiunta, un supplemento di tempo per adeguarsi ai tempi di conseguimento di un sapere parimenti come altri che svolgevano nella stessa età la stessa classe di studio.
Ripeto sempre che il grado di democrazia di un Paese si misura dallo stato delle sue carceri e delle sue scuole. Non può essere altrimenti, è stato così lungo tutto l’arco dello sviluppo della democrazia in Europa. Quando le carceri saranno scuole e quando le scuole saranno carceri, il grado democrazia di un Paese avrà raggiunto il suo punto più alto. Le carceri devono essere scuole di legalità. Non è pensabile, come invece accade, che si facciano incontri di legalità con magistrati e forze dell’ordine nelle scuole. È invece nelle carceri che si deve fare scuola di legalità, ciò significa che magistrati e forze dell’ordine, e non può essere altrimenti, hanno una funzione educativa sul piano sociale, devono rappresentare l’esempio di legalità e devono avere gli strumenti educativi, e non coercitivi, di legalità. Ben inteso in tale prospettiva, che la legalità è fatta di legami e che l’educazione ai legami sociali avviene in comune. Non è qualcosa che si possa dare individualmente se non nella partecipazione comune, come avviene in tutte le situazioni in cui è necessario porre rimedio a un’inclinazione riconosciuta come dipendenza. I nostri incontri di filosofia in carcere avvengono sempre in gruppo, si discute insieme, ci si confronta, si stabilisce un dialogo corale, una coralità dialogica di voci dove ognuno riprende quel che un altro prima ha indicato come posizione per seguire di stanza in stanza, di voce in voce il percorso che ci permette di arrivare alla soddisfazione di avvicinamento alla comprensione di quel che mettiamo in discussione, i sentimenti, i valori, la libertà, le relazioni, la comunicazione, la vita…
I risultati sono evidenti. Il confronto, il prendere parola, il mostrare la propria interiore fragilità, il proprio stato d’animo senza infingimenti, ma con onestà e dignità, perché poi è questa da conquistare come espressione della legalità, la propria dignità, quella che ti rende anche libero di essere e diventare quel che sei nella tua umanità. L’inviolabilità della vita e la dignità della vita sono i due percorsi sui quali l’Europa ha realizzato il suo cammino dell’istituzione penitenziaria all’interno dello sviluppo della democrazia di comunità. Siamo ancora su questo cammino, non tutte le carceri sono uguali e la diseguaglianza carceraria è ancora più sofferta di quella di cui è riflesso nella società.
Il carcere è certo il riflesso del disagio della civiltà, è certo il riflesso della diseguaglianza sociale, formative, comunicative, locali. Questo significa che proprio il carcere, perché luogo di reclusione dentro l’inclusione, deve poter esprimere quell’attenzione di rimedio sociale che non è solo del singolo detenuto, ma del sistema di detenzione che deve poter essere esso stesso di rimedio sociale. Spiegandomi meglio, significa che nel carcere è possibile “sperimentare”, proporre, indicare metodi, forme, percorsi educativi d’eccellenza rimediando a metodi, forme, sperimentazione educativa che hanno fallito o che non sono proponibili indifferentemente in ogni luogo e situazione ambientale. Il carcere è un luogo di sperimentazione di forme indirizzate a un’educazione sociale. Lo studio è la cosa più importante. Il carcere deve essere una scuola. Ciò che già è così, ma non in forma spontanea, improvvisata, lasciata al volontariato temporaneo e non sempre accolto e lasciato operare, mentre dovrebbe essere modulato, con percorsi formativi disciplinati secondo le esigenze personalizzate, ma mai da soli, ma indirizzate al singolo perché ognuno possa farlo proprio non per imposizione ma per scelta di partecipazione insieme con altri con i quali ci si confronta e si opera al fine di diventare dei collaboratori sociali di giustizia. Sappiamo bene che proprio chi trasgredisce le leggi le conosce meglio, sapendo quel che legittimano e quel che vietano, possono esprimerne perciò il senso e il valore meglio di altri e possono finanche indicare soluzioni e aggiustamenti di cui le stesse leggi hanno bisogno nell’evolversi del tempo.
La pena deve essere un diritto, si comprende ancora meglio in tale prospettiva. In uno Stato di Diritto, anche la pena deve essere un diritto, quello per chi ha sbagliato di rimediare al proprio errore aprendo un percorso che porti dalla colpa alla responsabilità. Accade invece, spesso, che il carcere fa diventare vittima chi ha commesso un reato, senza riuscire a vedere dentro di sé, a sentire, il male procurato a chi ha offeso e alle persone care che entrano nel cerchio di una pena soffrendo per colpe inattese e improprie.
Si dirà, che il carcere concepito in questo modo è solo una fantasia, un ideale, perché nella realtà c’è la condizione di reazione, la follia di ogni giorno, la tabella di consegna, il giro da compiere, i tempi da rispettare e che manca il personale, i servizi sono carenti, i soldi non si possono spendere se si hanno e non ci sono quando occorrono, allora ecco il volontariato, che magari crea anche problemi, perché non c’è personale che sostenga le ore della loro presenza, e di nuovo si ripete il rito di una sicurezza per cui non si fa niente perché non succeda niente.
Il nulla costa nulla. Il tempo allora rafferma. Si arresta. Ci si trova in arresto. Detenuto. Così si amalgama il cemento di parole, il caglio di voci che raffermano ogni avanzamento mentre ci sono persone splendide nel personale della sicurezza, nei comandi, nella semplicità di chi sa che potrebbe essere diverso, di chi tra gli agenti nasconde il proprio malessere in un riflesso rovesciato della detenzione dell’altro, perché nessun uomo che incrocia lo sguardo distratto di un altro ne resta indifferente. Anche chi uccide deve non guardare negli occhi la sua vittima, fosse anche un animale da sacrificare nelle feste comandate. Quando si ha di fronte una persona, quando si ha davanti una vita, la mano si deve tendere aperta nel desiderio di vivere e costruire mondo. La dignità edifica, il resto, senza, rovina. Il volto dell’altro affaccia sulla vita, non si può guardare senza essere presi e coinvolti come di un bene che è comune a tutti nella sua sacralità, nella sua inviolabilità che reclama dignità.
Non sarà l’automatismo dell’assegnazione di tempi, il riscontro di tabelle. Il tempo non è uguale per tutti, ognuno ha il suo tempo di apprendimento e di ripensamento. Il tempo è dato dagli avvenimenti; il tempo proprio è fatto d’incontri, di cose che colpiscono, di strade nuove che s’intravedono e s’intraprendono. C’è quella “scala a scendere”, esattamente come inversa a quella dei gradi della scuola e delle professioni di merito. Nel carcere tutto è capovolto, secondo una logica che ha un senso preciso. Il declassamento si svolge secondo una tale logica.
Non è un avanzamento di merito, non si sale una classe, si scende di grado di pericolosità. Si scende la scala per arrivare alla società, si scende dal ripostiglio, dal piano di reclusione stabilito. Le parole mantengono una saggezza che spesso perdiamo a pronunciarle nella quotidianità. La parola è invece uno scenario di azione, uno schermo sul quale si rappresentano azioni e valori. Il declassamento è importante. È una scena di piano.
C’è un criterio di declassamento. La sicurezza. Avanza l’esigenza di separare anche per istituti le “classi di pericolosità” da As1 As2 As3. Siamo a una nuova stagione delle condizioni del carcere in Italia. Ci si muove in più direzioni. Dalla sorveglianza dinamica che investe forme e metodi di detenzione impegnativi sul piano della conoscenza e della formazione per un avvicinamento alle richieste della Comunità Europea, fino ad arrivare, all’altro capo, a una detenzione speciale, ridefinendo la geografia delle carceri con luoghi dedicati all’alta sicurezza. Il declassamento bisogna intenderlo come un merito, spesso però le condizioni di declassamento rispecchiano un’esigenza economica al risparmio permettendo di detenere più di una persona nello stesso spazio. Il paradosso è che il regime di As1 consente un lavoro su sestessi, un contenimento di sé con maggiori possibilità di ripensamenti. Bisogna allora pensare al declassamento non per ragioni economiche di risparmio. Non sarà l’esigenza economica, dei costi della sicurezza ad abolire l’ergastolo in Italia, le ragioni dell’abolizione dell’ergastolo, ostativo e non, devono essere sociali, educativi, di dignità umana, di avanzamento della democrazia. Diversamente la logica del risparmio ricrea le condizioni di dispersione e di disagio che il carcere stesso è chiamato a risanare come istituzione se vuole essere un luogo d’istruzione della libertà. Non è difficile capire quel che è un discorso solo in apparenza paradossale. Il declassamento deve coincidere con maggiore attenzione al percorso formativo della persona. Deve perciò essere di garanzia di continuità del proprio cammino di libertà.
Separare alta e bassa sicurezza, può anche voler affermare un principio d’irrimediabilità di pena per chi rientrando in una topologia di criminalità associativa finisce con l’essere dimenticato per sempre. Murato. Senza continuità di percorsi intrapresi. I criteri devono essere altri, non economici, si spende meglio e meno per la sicurezza se la prospettiva è quella educativa. Posso fare i nomi. Conosco persone che meriterebbero immediatamente l’uscita dalla condizione di As1 ed entrare nel tempo della libertà di prova prodigandosi con impegno alla collaborazione sociale di giustizia. Posso fare i nomi, posso dare garanzia assoluta, posso offrire adozione, ospitalità, pensare a una comunità di collaboratori sociali di giustizia, persone che so con assoluta certezza che hanno acquisito una responsabilità che non può continuare a essere sprecata. Quelli che si definiscono come irrimediabili da un punto di vista sociale possono operare di  “collaborazione insociale di giustizia”, dando un segno diverso, opposto a chi invece può esprimere un bisogno sociale di libertà. Vanno allora ripensati i criteri, ma anche le condizioni di declassamento.
Vanno ripensate le geografiche carcerarie, così le forme e metodi della sicurezza, i tempi di detenzione, l’ordine del tempo, a partire dal principio più semplice: la sicurezza è la parola a garantirla, quando ci si parla, la regola è la relazione. Le regole senza relazioni sono vuote e repressive, le relazioni senza regole sono violente e cieche. Non c’è pena che non sia per un impegno, che non faccia dire “ne valeva la pena”. Quella che non è valsa per tale è una pena inutile, che non serve nemmeno a dimenticare. Le regole sono le relazioni che rendono possibili. La pena è un diritto. Lo studio è una pena, si dice anche in quel caso “diritto allo studio” ed è la voce che ha segnato lo sviluppo della democrazia in Italia e ancora invoca, bisognerà anche dire diritto alla pena, non solo per certezza che renda più sicuri nella testa chi la pena non la soffre, ma perché la pena ha la sua verità che nessuna certezza può capire se non misurando il tempo che si dà e si toglie, quello che è proprio della persona per riuscire a tornare e a diventare quel che ogni essere umano è capace di rappresentare in rappresentanza della dignità della vita propria e sociale.

L’assassino dei sogni – Lettere fra un filosofo e un ergastolano

Luglio 11, 2014 Posted by Carceri, επιμελεια - Epimeleia 0 thoughts on “L’assassino dei sogni – Lettere fra un filosofo e un ergastolano”

GIUGNO 2014:GIUGNO 2008

Conversazioni penitenziarie

Giugno 20, 2014 Posted by Eventi, Carceri 0 thoughts on “Conversazioni penitenziarie”

2014.06.26 conversazioni

Lettera di G. dopo l’incontro di Carinola

Febbraio 6, 2014 Posted by Carceri 0 thoughts on “Lettera di G. dopo l’incontro di Carinola”

Carissimo Professore, sento l’impellente bisogno di scriverle. Sento di scriverle come ad un amico che a fine serata s’incontra e si raccontano le proprie esperienze vissute.

La sento vicino, mi permetto di dirle che la sento come Professore e amico in egual misura.

E forse per questo motivo riesco ad esprimerle i miei sentimenti a cuore aperto, così come li ho vissuti. Non mi aspettavo così tanti ragazzi, ho sempre pensato che portasse si e no 4 o 5 ragazzi. Quel che ha fatto lì dentro in quella sala rompendo l’iniziale disposizione e schierandoci in cerchio assieme agli altri è stato eccezionale. Quel che è successo oggi mi è arrivato dritto al cuore con la forza di un maglio. Sento dentro di me un vulcano di emozioni che ribolle lentamente. Non avrei mai pensato di vivere questa situazione così come l’ho vissuta.

Finche ero lì in sala tutto era piacevole ed emozionante nei giusti limiti. Mano a mano è andata aumentando quando si è aperto il dialogo con le ragazze accanto, mi emozionavo nel vedere la ragazza di fronte scoppiare in lacrime mentre esponeva l’idea che aveva sui detenuti in generale e al momento di andare via vedere alcune di loro con le lacrime agli occhi è qualcosa che mi ha  toccato profondamente, non lo dimenticherò mai, e infine il suo calore abbraccio così affettivo così intimo. La rispetto profondamente caro Professore e mi sento di dirle che le voglio bene. Nel vedere quelle ragazze, sentirle parlare, è stato come vedere in loro mia figlia. Virginia ha la loro stessa età anch’essa è laureanda al 3. anno di medicina all’università di Torino. In certi momenti in sala si affacciavano alla mia mente alcuni pensieri che di solito mi assalgono nelle notti insonni pensando alla mia Virginia a tutto quello che abbiamo perso e non potremo mai più riavere e questo sono riuscito a confidarlo alla sua allieva.

Questo pensiero è un tormento di cui non potrò mai liberarmi e non è il solo e l’unico. Così mentre mi incamminavo verso la cella sentivo qualcosa che mi stringeva lo stomaco e le budella. Ricorda Professore quando ci chiese cos’è il senso? Beh questo tipo di senso “che è il senso di colpa” non riesco a spiegarglielo in modo filosofico mentre riesco benissimo a spiegarglielo in modo pratico perché è quel senso di malessere di aggrovigliamento di budella di ansia che ti sale sino al cervello. Arrivato in cella non riuscivo a stare fermo, ho cominciato a camminare avanti e indietro velocemente come una bestia inquieta e pensavo e rivedevo quel che era successo in sala aggrovigliato a mille pensieri. Mi creda Professore sentivo un magone in gola che non riuscivo a scacciare e non vedevo l’ora di scendere giù al passeggio assieme ai miei compagni e sfogarmi.

Effettivamente dopo il passeggio mi sono momentaneamente rasserenato. Una serenità apparente, effimera, perché è riesplosa tutta alla sera. Ho racchiuso in me tanta emozione, talmente tanta che mentre mi accingevo a scrivere e prime parole di questa lettera per liberare le mie emozioni sentivo scorrere sul mio viso alcune lacrime. Non so perché le racconto anche questo particolare, forse è per il semplice motivo che mi sento libero di poterglielo dire. Ora che ho scritto questa lettera mi sento veramente più sereno e posso andare a letto. E’ notte tarda in questo preciso momento dò anche a lei una buona notte e grazie per averci regalato un giorno così speciale.

La saluto con un caloroso abbraccio e tantissimo affetto

 

Lettera di Salvatore

Febbraio 3, 2014 Posted by Carceri 0 thoughts on “Lettera di Salvatore”

Caro Professore,

grazie per la sua lettera, per le sue parole toccanti su di me. Capisco quello che Lei vuole intendere, sono d’accordo su tutto, quando si comincia a ragionare se lo Stato sia presente o assente si è sulla strada giusta. Il punto che mi riesce difficile da capire è il linguaggio o la scrittura istituzionale. Penso a tutti quelli che come me parlano e scrivono male. Mi sembra un pregiudizio. Vorrei dire che uno può manifestare il suo modo d’essere, con parole povere non istituzionali, non tutti siamo chiari nel parlare, e pochi sono “Chiarissimi” come Lei. La mia domanda è: si può essere ascoltati senza pregiudizi? Se è si, io posso nutrire qualche speranza?

(altro…)

IV Conferenza mondiale “Science for Peace”, Milano – 16/17 novembre 2012

Ottobre 30, 2012 Posted by Eventi, Carceri 0 thoughts on “IV Conferenza mondiale “Science for Peace”, Milano – 16/17 novembre 2012”

Tutti possiamo contribuire a costruire la pace” è il leitmotiv che guiderà la Quarta Conferenza Mondiale Science for Peace, un progetto nato nel 2009 per iniziativa di Umberto Veronesi e sostenuto da 21 Premi Nobel.

Science for Peace ha il duplice obiettivo di diffondere la cultura di pace per superare le tensioni tra gli Stati attraverso attività di sensibilizzazione e di divulgazione rivolte alla società civile e al mondo della scuola e la riduzione degli ordigni nucleari e delle spese militari a favore di maggiori investimenti alla ricerca e allo sviluppo.

L’evento avrà una durata di due giorni ed è prevista per  il 16 e 17 novembre 2012 presso l’Aula Magna dell’Università Bocconi a Milano.

Il Prof. Giuseppe Ferraro, docente di filosofia morale dell’Università “Federico II” di Napoli, interverrà alla conferenza  “Perché punire? Scienza, società e nuovi valori della pena“.

Convegno Roma, Senato della Repubblica: Ergastolo e Democrazia

Ottobre 1, 2012 Posted by Eventi, Carceri 0 thoughts on “Convegno Roma, Senato della Repubblica: Ergastolo e Democrazia”

2012.10.02 Convegno senato

Il carcere non è sempre uguale a se stesso…

Aprile 4, 2012 Posted by Carceri 0 thoughts on “Il carcere non è sempre uguale a se stesso…”

… come tutte le cose che appartengono al genere umano sono sempre singolari mai plurali. Generalizzare ci rassicura, ci aiuta nella logica del ragionamento ma è fortemente illogico e paradossale.
Incontro al carcere di Poggioreale
Il racconto del racconto per la temporalità che, chi sa perché, è uno dei miei argini, il confine buono.
Quello che sorprende è il portone di Poggioreale, non è un portone e nemmeno una porta, è una porticina, una porticina che chiude un edificio enorme, brutto. Brutto nel cuore della città. Si entra e il comportamento delle guardie già ti catapulta in un’altra dimensione, devi posare le “ tue ” cose anche se praticamente non hai quasi niente. In particolare quello che fa paura al carcere è il cellulare, qualsiasi forma di comunicazione va filtrata, documentata. Viene negato un bisogno primario dell’uomo, quello della comunicazione e questo accade nell’epoca della comunicazione a tutti i costi, di una comunicazione talvolta coatta. I cancelli che si chiudono dietro di te sono sempre inquietanti, poi si ripete lo stesso copione. Ci vogliono piazzare su un palcoscenico, in alto rispetto ai detenuti che in questa occasione sono molto più numerosi, almeno una settantina. Ferraro lo impedisce a favore della circolarità. Sono felici dell’incontro anche se non conoscono Ferraro e non sanno cos’è la filosofia in carcere, né tantomeno hanno mai sentito parlare dell’Arte della felicità. Si sono macchiati di crimini minori, entrano e escono dal carcere con una certa “flessibilità”. Le condizioni di vita che raccontano sono promiscue, fuori dai limiti del vivere civile. Sono 7/8 in una cella, con un solo bagno. Cucinano in cella, utilizzano una specie di spaccio che sta nel carcere, chi ha i soldi si consente di fare la spesa. I racconti sono rivolti alle famiglie; le famiglie dei carcerati sono carcerate. Per un colloquio con i loro cari sopportano file interminabili, tutta la procedura di spogliazione, alla quale noi stessi siamo stati sottoposti, l’attraversamento di cancelli con gli annessi odori che si infilano nel naso e non ti abbandonano più, come l’odore della morte e della malattia. Un incubo! Questa dei familiari è una delle pene maggiori a cui sono condannati. Hanno poco tempo per raccontarsi tra la presentazione di Pino, il discorso della direttrice, l’inizio del lavoro sulla verità e sulla felicità. Qui sembra che ci sia poco spazio per relazioni di verità. E’ molto bello l’intervento del bibliotecario; narra della strana situazione che vive nel giorno della distribuzione dei libri ai detenuti. Vede le celle da fuori e prova sensazioni che non riesce bene a definire. Con occhi nuovi guarda ai suoi compagni di sventura che ora vede distanti, come se quella vita non gli appartenesse per gli altri 29 giorni del mese. Riporta, forse senza saperlo, all’importanza del punto di vista che assumiamo, spesso inconsapevolmente, in qualsiasi situazione della nostra vita. Rivedere “L’attimo fuggente” nella scena in cui il professore sale sulla cattedra e invita i suoi studenti a farlo? Guardare in cerchio, a 360°, rimanda alla testarda circolarità di Ferraro, al cerchio come figura geometrica perfetta.
Gli altri, le famiglie, gli affetti, la libertà hanno senso solo quando li perdiamo, perché? Forse è questo il senso della morte, come perdita definitiva della vita che sfugge mentre l’attraversiamo? La morte per comprendere la vita, per abbracciarla tutta …
Incontro alla Casa Circondariale femminile di Pozzuoli.
E’ difficile parcheggiare fuori alla Casa Circondariale(questa definizione di carcere risale al 1918) di Pozzuoli ma la giornata è bellissima, il golfo magnifico. Questa volta siamo preparati e ci presentiamo al controllo delle guardie già perfettamente spogliati di oggetti che non sono ammessi in prigione. Forse siamo più spogliati del necessario … i cellulari si possono lasciare in un armadietto che si trova nella portineria. Il controllo dei documenti è rapido e ci vengono restituiti subito con un cartellino con la scritta “visitatore”. Dopo una breve sosta nell’androne entriamo in un giardino bellissimo. Pino viene trattenuto, noi siamo invitati ad andare a prendere il caffè al bar del carcere. Non è che abbiamo sbagliato luogo? Pino non torna, siamo un po’ preoccupati,( anche se ci stiamo godendo il sole), quando arriva Fausta, una delle docenti della scuola che funziona in carcere, fino al biennio delle superiori. Ci spiega che Pino sta risolvendo il problema della location, anche qui ci volevano mettere sul palcoscenico. Ma come mai? Perché dovremo rappresentare uno spettacolo? Ma poi uno spettacolo filosofico, con discussioni su verità, felicità? Non può essere il caso, è il terzo carcere che ci vuole spettacolarizzare … Inoltre ci spiega che una casa circondariale non è esattamente un carcere definitivo, si tratta piuttosto di un luogo di transito da un carcere all’altro, da una situazione all’altra. Ci sono i gironi come nell’Inferno di Dante: all’ultimo piano ci sono le Definitive che sono una quindicina. Hanno pensato che erano poche e allora hanno coinvolto quelle del secondo piano che però non avevano firmato la liberatoria perché fino all’ultimo non erano previste. Loro sono le Appellanti, hanno fatto l’appello e sono in attesa della sentenza dopo di che verranno trasferite in un altro carcere, spesso un carcere maschile con un braccio femminile. Infine al primo piano ci sono le Appena Arrivate che ancora non hanno fatto appello né sono in attesa di sentenza. Ci racconta la storia di E. un’extracomunitaria. Il figlio malato di tumore aveva bisogno di cure molto costose per affrontare l’intervento. Qualcuno in ospedale le consiglia di portare un pacchetto in Italia per ottenere i soldi necessari. Lei accetta anche perché nel suo paese è normale trasportare quel genere di pacchetti … e invece atterrata in Italia viene quasi immediatamente arrestata. Trasportava 1Kg di cocaina. Al momento dell’arresto non capisce, nel suo paese non funziona così, non ha rubato niente! Rubare quello si che è un reato. Viene portata alla casa circondariale di Pozzuoli. Fausta continua a raccontare storie e tutto quello che si fa in carcere per le detenute: teatro, scuola … tuttavia molte di loro sono colpite da gravi forme di depressione ed è molto pericoloso lasciarle sole, è facile che si facciano del male. Finalmente la situazione si sblocca e ci portano nella zona centrale del giardino con le sedie messe in circolo come suggerito dal Prof. Che arriva e come succede puntualmente fa spostare tutte le sedie(“ognuno ne prenda almeno due”) dall’altro lato del giardino, nella zona esposta al sole. E’ troppo divertente il nostro Prof. e chi non sa che uno degli aspetti fondamentali dell’apprendimento è il piacere, il divertimento? Cominciano i lavori.
Siamo alla terza direttrice donna ed è evidente che nutrivo il pregiudizio che quello del direttore di carcere non fosse un lavoro per donne; a questo punto mi è chiaro come il sole che non è un lavoro per me ma può esserlo per qualsiasi altra donna con caratteristiche diverse dalle mie.
Pino parla dell’Arte della felicità e spiega che è l’arte di dare vita. “E’ felice chi dà felicità. La realizzazione di sé si accompagna con la felicità degli altri, di quelli che stanno intorno a noi. Quelli che vincono al superenalotto fanno sempre una brutta fine. La fortuna non dà la felicità. L’arte della felicità è l’opera. Bisogna fare della propria vita un’opera d’arte.” (Segue la citazione del film “Cesare deve morire” dei fratelli Taviani, tra verità e finzione). La somiglianza dà la felicità; gli amanti a furia di carezzarsi si modellano in qualche modo, bisogna fare una scultura, una scultura di sé, scolpire la propria interiorità, il disegno di sé come si è dentro. Quante volte le coppie si dicono: “non mi conosci proprio!”.
Le donne applaudono, sono infervorate dal discorso del Prof., hanno molto da dire, in particolare una di loro … Applaudono continuamente e questo è già successo a Carinola, a Poggioreale, perché? Qual è il senso?
Le loro voci.
– Le persone belle fanno cose belle.
– Le emozioni, il dolore che noi viviamo sono uguali, dobbiamo avere più fiducia in noi stesse. Io per esempio sono cresciuta tardi, ho 40 anni. Nasce di conseguenza, quando ero fuori mi serviva il gruppo, ma poi grazie ai masti con cui ho lavorato ho imparato tante cose. Certo le ferite sono là, uno se le porta dentro.
– Il carcere mi ha aiutato a crescere, mi ha dato l’opportunità di andare a scuola, poi abbiamo fatto un coro bellissimo, sono venuti i figli a vederci.
“Le insegnanti qui vi pensano continuamente …”
– Anche il personale per noi è importante, sono brave persone. Il passato è passato, rifiuto(?) e vado avanti.
“Qua si vede che c’è una relazione. Le regole devono essere accompagnate dalla relazione. Relazione – regole, qui si respira questo. Questa è la relazione più bella. Adesso parliamo di verità – o munn’ a verità – si dice in dialetto, dove non si parla, esplicitamente sincero … a capa fuori a capa dentro … una persona è libera quando viene ascoltata. Pensate a – quann e marit nun c sentono – chill nun vo’ capì … la verità sta nell’ascolto, ascoltare e dare ascolto, dare il tempo, tu parlando ti puoi ascoltare. Sant’Agostino diceva “ torna in te stesso”, perché la verità abita lì. Quello che manca è l’educazione ai sentimenti, dare la parola a quello che uno sente. La verità è un modo di abitarsi, quando si ritorna si sta a casa”.
– Vi voglio ringraziare perché siete qui, noi ci sentiamo escluse dal mondo, questo è l’inferno dei vivi, in questo posto non si può parlare di felicità. I colloqui con i parenti sono ancora più dolorosi, il dopo è terribile. L’unico momento di gioia è quando aiutiamo un’amica o quando ci danno la notizia che ci fanno uscire.
– A volte mi chiedo ma prima ero felice?
Applausi.
“ Entrando in carcere lasciamo un altro carcere, questo posto è utile solo per chi lo vuole capire”.
– Solo qui capisci i veri valori ma potevamo evitarlo e non l’abbiamo fatto.
“ Pensiamo alla nostra città, ci sono strade che sono un carcere a cielo aperto. Noi facciamo finta di niente, facciamo finta di non soffrire. La sofferenza ci istruisce qua ma non fuori, quando ti dispiace …”
– Anche la vita ti porta a sbagliare, qua dentro hai la possibilità di conoscerti. Fuori nessuno ti aiuta e invece bisognerebbe aiutare le persone fuori. Per esempio quando mai ho pensato che mi dovevo fare una mammografia o altro per curare la mia salute, nessuno me lo ha mai detto.
“ Ci vorrebbe un mese di carcere per tutti. I cattolici per esempio fanno i ritiri spirituali.”
Racconta di quando a Scampia per la 1° volta ha sentito l’odore dei gelsomini.
– A Scampia ci sono molte cose belle e molte persone per bene, ci sono molti lati positivi.
– Anche a Ponticelli, l’IPIA fa tante cose belle e buone grazie ai ragazzi.
– Io ho capito che se vuoi bene a te stessa vuoi bene a tutti, io non ho negatività.
– Pensa a quanta falsità c’è … fuori … dentro …
– Se io mi faccio avanti tu cominci ad avere fiducia. Io per esempio sono molto socievole però ci sono momenti in cui mi chiudo. Ad ogni modo qui ci sono persone in grado di consigliarti in modo disinteressato.
Applausi.
– Dovremo essere come una famiglia.
“ Ognuno dice dell’altro ciò che sa di sé”.
Fausta in sottofondo continua a parlare, ha tanto bisogno di raccontare.
– Il giudizio fa paura. Loro sono di un altro paese, il nostro isolamento è immenso a causa della lingua che non capiamo, non parliamo bene, perciò la disperazione ti può spingere a farti del male.
“L’educazione si dà per somiglianza per questo sono molto importanti i rapporti che stabilite tra di voi. Pensate a quante volte avete voluto somigliare a qualcuno, fuori tante cose non si riescono a vedere”.
Il dolore di E. seduta accanto a me è palpabile, solidifica l’aria intorno a noi. Si tratta della protagonista della storia che ci ha raccontato Fausta poc’anzi. Le accarezzo il braccio, quando ci salutiamo ci abbracciamo, penso alle storie delle donne nate nell’altra metà del mondo …

Anna Serio

Le voci di dentro

Marzo 26, 2012 Posted by Carceri 0 thoughts on “Le voci di dentro”

Mi hanno sempre insegnato che imprigionare un’anima, fosse possibile soltanto per maghi e stregoni, ma purtroppo ho scoperto che non è poi così difficile farlo. L’anima non si rinchiude in un’ampolla, bastano solo 3 mura e qualche sbarra di ferro. Ho sentito i loro occhi impauriti, che alla vista potevano sembrare assonnati, alla mia vista sembravano più arresi all’idea di un eterno sonno. Ho visto le loro voci venir fuori con dolore, rassegnazione, rabbia, amore. Quando esci fuori e provi a parlarne, ti scontri col cinismo, anche comprensibile, di chi prova a dirti: “Beh se sono lì, un motivo ci sarà”. Ma chi non prova su di sé il peso, che ti fa scendere la coscienza nello stomaco, soltanto ascoltando le loro storie, non può capire perché scrivo certe cose. Non si può essere freddi e cinici, quando pensi che ciò che è accaduto a loro, aveva la stessa possibilità di accadere a te. Dai loro ascolto e ti accorgi che quando devono parlare la voce gli si rompe, una vendetta per quella voce, che ha provato tante volte a rompere quelle sbarre. Quando ti si avvicinano e provano a toccare la tua pelle, c’è una violenza, una tale irruenza nel loro stringerti. In questo caso puoi pensare solo 2 cose: O che è così tanto tempo che non toccano qualcuno, che hanno dimenticato come si fa o che non vorrebbero mai lasciarti andare, così che tu possa ascoltare ancora le loro storie. Già, perché di questo si tratta. Gli è già stata tolta la vita, mentre sono ancora in vita, ma noi diamo loro il colpo di grazia, con la nostra indifferenza. Mentre ero lì, gli ho detto che mi sembrava che loro fossero i saggi dai quali noi allievi dovevamo imparare. In fondo è come se la loro voce, fosse la mia voce di dentro, mentre ci dicevano “Non fate il nostro stesso errore”. Erano la mia coscienza. Erano la personificazione di ogni mio errore. Dell’errore di ognuno. Ciò che mi spaventa di più, è che quando ti crei un’aspettativa di come saranno le persone che incontrerai, pensando a loro come dei mostri, quasi a volerti difendere dal fatto che nella quotidianità non possono esserci persone come loro e poi ti accorgi che hanno la familiarità di un tuo zio o di un nonno, o possono sembrarti professori, capisci che forse bisognerebbe stare più attenti fuori, che lì dentro, a differenza di quanto credono i tuoi genitori. Ho paura. Ho paura per la nostra vita e per come coloro che ci rappresentano, prendono decisioni sulla nostra sicurezza. Non tollero che uno stato giusto predichi punizione e vendetta, anziché ri-educazione e ri-formazione. Se una persona sbaglia deve morire. Sia anche solo con l’anima. Chi ha subito un torto gravissimo, deve avere vendetta, anche se in questo modo si dovesse porre sullo stesso piano dell’assassino. Davvero l’unica differenza che ho trovato tra le persone che ho incontrato e una persona morta, è che i primi sono ancora presenti alla vista. Niente di più. Allora mi viene naturale chiedere: “Chi sbaglia deve perdere anche il diritto alla giustizia?”. Sembra che solo chi soffre, deve aver giustizia. Beh, io di persone che soffrono lì ne ho viste tante, ma per loro giustizia non ci sarà mai! Almeno noi, che possiamo estraniarci dalla funzione di giudice, facciamolo e quando andiamo a trovarli, pensiamo a loro come delle persone. Sono contento, perché sono riuscito a vedere soltanto delle persone e non dei crimini l’altro giorno in carcere. Non ho incontrato detenuti e non ne ho mai parlato così, prima di adesso, perché l’altro giorno ho incontrato delle PERSONE. Comunissime persone, con le loro paure, debolezze, insicurezze e frustrazioni. A differenza delle nostre hanno già la rassegnazione di essere fuori dalla possibilità di una vita felice. Le loro paure insicurezze, paure, frustrazioni e debolezze, sono schiave della loro infelicità.

“ La legge è per tutti”. Per me l’uguale è soltanto una relazione matematica.

Federico Zaccaria

A Carinola

Marzo 25, 2012 Posted by Carceri 0 thoughts on “A Carinola”

Da anni il mio amico Ferraro va in carcere. Va a fare filosofia con i detenuti. Sono anni che lo sento parlare di loro, con amore, con entusiasmo. Ad ogni incontro di filosofia ne parla. Il suo racconto ha il fascino delle storie narrate oralmente non di quelle scritte. E’ un tornare indietro nel tempo, al tempo del racconto senza tempo, è il tempo dell’infanzia ascoltarlo. E’ stupore, è meraviglia. Ferraro è il mio amico ma è soprattutto il mio maestro, non nel senso di mio, ma di me. Sentire questa differenza(mio, di me) detta da un uomo in carcere ostativo da 20 anni mi ha dato un’emozione fortissima, indicibile. Penso a tutto quello che il di me amico è riuscito a trasmettergli in questi anni, a come glielo ha trasmesso. Già da un po’ sentivo un bisogno di condivisione più profondo di questa storia, fino a che, quest’anno, non ho potuto resistere “vado con il di me amico, voglio conoscere questi suoi amici così singolari, possono diventare anche i di me amici”. Una delle prime cose che ho imparato dal di me maestro è il sentimento Amicizia mentre parlava a giovani adolescenti dell’amica/o del cuore. Lentamente li guidava alla scoperta che il sentimento Amicizia è dentro di noi non va ricercato fuori. Il dentro, il fuori. Consapevole di avere/essere Amicizia dentro di me per un approssimativo bilancio della mia esistenza sul pianeta ho seguito le mie suggestioni utilizzandole come navigatore.
E in compagnia di Maurizio come navigatore sono giunta a Carinola, fuori al carcere. Un cancello si è aperto e siamo entrati con la macchina. Immediatamente una poliziotta, attorniata da altri poliziotti, ci ha chiesto i documenti e di aprirle il cofano dell’auto. Per istinto le ho risposto che era aperto ma lei ha insistito “lo deve aprire lei”. Mi sentivo già privata della mia libertà. “Lasciate tutto in macchina soprattutto i cellulari”. Avvertivo una certa tensione. Un signore senza divisa cercava di mantenere con il sorriso una sorta di allegria, di leggerezza. Ci ha guidati all’interno. Siamo stati accolti da altri poliziotti che ripetutamente ci chiedevano se eravamo sicuri di non avere armi con noi. Armi … una sola volta ho visto la pistola di un mio cugino poliziotto e gli ho chiesto di riporla subito da qualche parte in modo che io non potessi più vederla, era orribile. Ci hanno detto che il 1° gruppo che entrava era quello degli studenti e paradossalmente il primo cognome era il mio. Ci hanno fatto passare in un edificio più interno. Il dentro, il fuori, sempre più dentro. Il signore sorridente ci aveva avvertiti che “lì sotto fa molto freddo” per cui mi ero portata il mio soprabito di lana, mi era intollerabile pensare di avere freddo. Entrati nel 2° edificio le mie narici sono state colpite da un odore completamente diverso, un odore sgradevole che assomigliava a quello degli ospedali, delle mense, all’odore della miseria umana. Un colpo allo stomaco. Mi guardavo intorno, c’era il solito cartello “Vietato fumare” ma il maresciallo, che era uno dei nostri accompagnatori in divisa, fumava tranquillamente. L’ abitudine alla decodifica dei linguaggi non verbali ha acceso una vocina nella testa “non si fuma ma qui comando io dunque faccio quello che voglio”. Sulla parete alla mia destra tre quadri che immagino dei detenuti, colorati, molto colorati. Quello centrale è un paesaggio molto confuso, sfumato, rimanda a sensazioni spiacevoli, come quando si soffre il mal di mare. Quello a destra è un campo di margherite, bello, giallo; quello a sinistra è perfetto! Riproduce con colori ad alta definizione i campi inondati di peschi in fiore che abbiamo incontrato sulla strada, venendo qui. C’è la stessa simmetria dei campi, il colore, il silenzio intorno si tocca. I poliziotti aprono il 1° cancello. Entriamo in un corridoio inondato di luce, quanta luce in questo posto. A destra e a sinistra grandi finestre da cui è possibile vedere che siamo sotto il livello della terra, già fa più freddo. A destra un prato verde sopra le nostre teste, a sinistra un cantiere, orrendo. Mi accorgo che se non si chiude il 1° cancello dietro di noi non è possibile aprire il successivo. Non è una bella sensazione, non ci devi pensare a dove stai andando, devi respirare ma quello che respiri non è piacevole, l’unica cosa che incoraggia è la luce che abbaglia. Poi arriviamo su un palcoscenico, siamo increduli. I nostri nuovi amici i senza fine mai sono già lì ci aspettano. Giù ci sono altri detenuti attorniati dalle guardie, noi non capiamo, perché ci hanno messi lì sopra? Aspettiamo Pino con ansia, c’è un po’ di imbarazzo. Penso al senso di questa attesa a cosa mi deve insegnare penso all’attesa di questi uomini all’attesa di questa giornata. Li guardo mi sembrano felici di averci là così vicini, ci guardano e non so come noi sembriamo a loro. La sala comincia a riempirsi, entrano i docenti del carcere, entra Simona, entrano i giornalisti. Anche loro sono interdetti a vederci su un palco. Finalmente arriva Pino, abbraccia uno ad uno i suoi amici e come sua consuetudine ridefinisce il setting, si direbbe in termini analitici. Questa sua ridefinizione per me che ho assistito tante volte al suo lavoro è completamente diversa. Corpo a corpo poliziotti-detenuti, uno scende dal palco e viene rimproverato torna indietro noi dobbiamo uscire dalla scala a sinistra e loro a destra, non ci dobbiamo mischiare. Una volta giù Pino ci mischia tutti come un mazzo di carte napoletane. Comincia il lavoro …
Giuseppe: parla ai ragazzi “non fate niente che vi possa condurre al carcere”. Ha 47 anni e da 20 è lì. Ha due figli, due gemelli e non si può capire il dolore. Gli manca il mare, i tuffi nell’acqua salata, la sabbia che odiava da giovane, il corpo fa male per il desiderio.
Sappiamo che tra non molto si laurea in lettere, ha la media del 30/30.
Salvatore: ha due figlie laureate, questo è il suo orgoglio. “Sono diventate quello che io avrei voluto essere. In questi anni le ho martellate, ogni volta che venivano a colloquio, per corrispondenza, non fate mai niente che vi possa condurre in carcere, mai, assolutamente!
“Loro devono godere di tutti i piaceri della vita, dei piaceri del mondo. Io ero affascinato dal bello senza il bene. La letteratura mi ha aiutato. Sono entrato qui dentro analfabeta-confessa con un certo imbarazzo- e poi per 10 anni ho parlato di letteratura con le mie figlie quando venivano ai colloqui. Io sono felice perché ho raggiunto il mio scopo. Ragazzi vi auguro di essere felici nello studio”.
Pino: “Salvatore è la persona più felice che io conosco. Da quando gli ho consigliato “La gaia scienza”… ride. La felicità è uno stato d’animo. Lui è qui per la bellezza, il bene e la bellezza possono coincidere.
Gavino: parla ai ragazzi, con dolcezza. Parla di ergastolo, è difficile, la voce si rompe per l’emozione. “Sono in carcere da 20 anni e non sono più la stessa persona. Le condizioni creano le persone, le relazioni le cambiano. Si deve dare una chance alle persone, noi non abbiamo voce”. Cita Sofocle, nessuno è colpevole delle proprie azioni.
Pino: innocenti si può diventare. Penso alla storia di Zidane, non è cosa da farsi ma si può passare dalla colpa alla responsabilità. Gavino è la dolcezza, il carcere è il luogo del dentro e fuori. Bisogna mettersi sul piano della responsabilità, vedere le persone nel racconto della propria storia. Chi si può raccontare ha una relazione con se stesso.
Antonino: l’ergastolo si … ma l’articolo 26 della Costituzione dice che ogni pena deve dare al detenuto la possibilità di uscire. Io ho sbagliato e devo pagare per questo ma ci vuole rispetto per l’entità umana.
Rumori osceni inondano il salone, la voce di Antonino non si sente più. Sono i lavori del cantiere che ho visto entrando. Colpisce che lui per un po’ continua il racconto come a confermare l’abitudine a non essere ascoltato. Ma noi no, lo vogliamo ascoltare … per fortuna di tutti interviene la direttrice(come fa una donna a fare un lavoro del genere?) che fa sospendere i lavori, almeno fino alle 12.30. Il racconto può continuare. E’ curioso ma Antonino non riprende da dove si era interrotto ma ricomincia da capo, ripete ogni passaggio, fino a: “dietro ogni detenuto si trascina una famiglia. Noi siamo come gli alberi nel deserto. Se uno di noi cade non se ne accorge nessuno ma le nostre colpe non possono ricadere sui figli. Mio nonno è stato decorato di guerra, io lo amavo e ammiravo molto. Anche io vorrei essere il nonno di mia nipote.
Pino: la tragedia è sempre in casa, l’etica riguarda la città. Gavino è uno Spinoziano. Il vostro racconto è importante, rimanda all’importanza della testimonianza.
Cosimo: io sono un ex 41bis. Mi sono sposato in carcere, ho una moglie bellissima. Io sono un fine pena mai. Oggi è un giorno importante perché voi ci date la possibilità di esternare i nostri pensieri. Io e mia moglie vorremo una figlia/o. Ho trasformato la mia esperienza in positivo. Ho perso mio padre in carcere. Per me la felicità è dividere il pane siciliano che porta mia moglie con i miei compagni fine pena mai. Fate sentire la nostra voce fuori. Voi siete entrati qua grazie alla Scuola, la Filosofia in carcere è una parola importante. Noi siamo 40 ergastolani che hanno seguito il corso del professore, ora non siamo tutti, alcuni non ci sono, hanno fatto già 40 anni di carcere. Quest’anno stiamo lavorando su comunità, società, stato. Io rispetto le sentenze. L’istruzione apre la mente, l’ignoranza è totale, noi speriamo nel futuro, nel confronto tra esterno e interno.
Pino: queste sono voci non abituate a parlare, ad essere ascoltate. Sei libero se sei ascoltato. Il caso giudiziario è relativamente importante. Chi viene ascoltato è libero, dare ascolto non è ascoltare. Ascoltare vuol dire dare il proprio tempo.
Lorenzo: ho 52 anni, sono in carcere da 18 anni. Io non amo parlare del carcere perché è come piangersi addosso. Mi manca il profumo, la musica. La felicità è ricordare. Ad ogni modo ci dovrebbe essere anche un futuro che l’ergastolo ostativo ti toglie. Ai giovani auguro la felicità interiore. Io nutro la speranza di avere un figlio.
Pino: voi sapete cos’è la libertà non chi sta fuori.
Crescenzo: io ho fatto 10 anni di 41bis. Dopo 20 anni di carcere al corso di filosofia incontro Ferraro che mi abbraccia. La notte aspetto che arrivi l’alba, osservo il sorgere del sole. Lui il prof. ci porta per mano a capire cose diverse che non avevamo mai pensato, mai in quel modo. L’ergastolo ostativo è una mostruosità. Voi siete il futuro, voi che ci ascoltate. Lottate per voi stessi ma fatelo anche per noi.
Pino: ognuno fa e si fa gli auguri.
Andrea: io ho tre figlie, ho una bella famiglia, una figlia è laureata in psicologia. La mia felicità è la mia famiglia, quando mi sono concesse 5 ore di colloquio sono felice. Ho un figlio di 41 anni a cui ho insegnato ad essere corretto. Spero che lo stato ci dia qualche possibilità, dentro di noi il cambiamento c’è.
Aurelio: sono in carcere da 32 anni, scrivo poesie e racconti per bambini. Ho tre figlie a cui raccomando di non sbagliare. Mio figlio è stato arrestato perché l’hanno preso con gli spinelli, da giovani è facile rovinarsi la vita, non lo vedo da 10 anni.
Pino ringrazia gli agenti per il loro lavoro. Sanno come è autenticamente una persona ma la persona deve esprimere regole, relazioni.
Giuseppe: io sono felice perché nel 41bis non sono mai stato così vicino alle persone. In Italia siamo 1800 persone con famiglie anch’esse all’ergastolo, mia moglie ha l’ergastolo, i miei figli. Il giorno più felice che mi ricordo è stato quando dopo tanto isolamento sono uscito nel cortile del carcere e ho visto quel bellissimo albero che avete visto anche voi entrando. Non so cosa dire a questi ragazzi, posso augurare loro tante cose belle. Per noi è difficile, qui siamo tutti del sud, perché non c’è uno del nord? Perché loro hanno lavoro, cultura.
G.: la libertà è la legge che la garantisce, chiedo perdono alla comunità da cui provengo ma posso farlo solo dopo aver espiato la mia pena altrimenti potrei essere frainteso.
Uno studente: ho vissuto insieme a tutti voi un momento vero, reale, che ci ha fatto capire quanto è importante la libertà, per cui la vostra esistenza è importantissima ma avete volti familiari e questo fa paura.
Una studentessa: vi ho ascoltato come una figlia e penso che i vostri figli saranno orgogliosi di voi. La voce è rotta dal pianto. Anche mio padre ha fatto qualche giorno di carcere.
La direttrice: parlo come una voce di dentro, è la sofferenza che porta alla conoscenza.
Federico: perdere la libertà per conoscerla. E’ importante dove guardare piuttosto che cosa guardare, eppure non riesco a capire … siete come dentro un ospedale, come se aveste una malattia ma io vi vedo/sento normali.
Pino: noi respiriamo le persone.
Salvatore: la pena deve finire(cita il libro di Pino che parla di loro).
Pino: lo stato deve educare non punire, questo rende la pena giusta, ci vuole il fine della pena, è un diritto e il diritto è sempre una relazione.
La legge del padre …
Questa esperienza ha cambiato la chimica del mio corpo, grazie amico.
Quando torno a casa il più curioso di tutti è mio padre di 83 anni che non sta proprio in forma … mi chiede ripetutamente “perché sei andata in carcere?” e chiede e chiede. Riesco a rispondergli in un solo modo, gli leggo le voci di Giuseppe, Salvatore, Gavino, Aurelio, Cosimo, Antonino, Giuseppe, Lorenzo, Crescenzo, Andrea, che ho raccolto nel mio quaderno, l’unico oggetto che è entrato con me in carcere. Mi ascolta, riflette, mi chiede se la prossima volta può venire con me, li vuole conoscere. Mio padre non esce di casa da un paio di anni in modo autonomo. Vorrei aggiungere che è libero chi viene ascoltato e che lui mi ha dato questa libertà ma è ripiombato nel suo torpore di vecchio malato.

Anna Serio