Filosofia in carcere

La condizione del carcere di un paese rappresenta l’indice dello stato di sviluppo della sua democrazia. Toqueville quando ritornò dagli Stati Uniti, dove era andato in missione per relazionare sull’organizzazione carceraria di quel paese, scvrisse “La democrazia in America”. Oggi le carceri hanno ben poco dell’idea del Panopticon di Bentham. Nemmeno la pena la rappresentazione simbolica di cui parlava Foucault. Il corpo adesso è nascosto. Le immagini che hanno la funzione di deterrente sociale sono uelle della cattura, non quella della punizione. La nuova ideologia della società è la “certezza della pena”. Il corpo del detenuto è nascosto. In modo strano. Oggi le carceri non sono più costruite in luoghi isolati. Il paradosso è che il carcere è diventato qualcosa di sociale nascosto alla città nella città, nelle sue periferie. Si fa tanto per le carceri. Si può anche affermare che c’è un avanzamento delle relazioni interne indirizzate piuttosto ad una comunità che non riesce ad essere tale. Il corpo di polizia penitenziaria non è più quello di un tempo. Tuttavia non mancano le cadute individuali. La crescita culturale e di preparazione attivata dalle Scuole di Polizia senz’altra ha portato a modifica, seppure non ancora evidenti. Gli educatori svolgono una funzione importante, ma sono in numero tale da risultare insufficienti a realizzare le finalità del loro operato. Il codice penitenziario è tra i più avanzati, ma sulla carta. Non riesce a realizzarsi. I direttori dei penitenziari svolgono un’azione che è tra il giudiziario e il sociale. Hanno un ruolo di mezzo, di mediazione, che non riesce a superare le difficoltà di una sicurezza minata dalle condizioni degli Istituti. Si discute di detenzioni alternative. La presenza dei volontari è indiscutibilmente importante, modifica le relazioni, non altera le condizioni. Il carcere resta isolato e chi opera nelle carceri e sa delle carceri e cerca di far avanzare il grado di democrazia di riflesso in quelle condizioni, resta isolato. A parlare di carcere e ad operare nelle e per le carceri si resta fuori della società. Uno specialismo senza nulla di speciale. L’opinione pubblica è molto più indietro nella consapevolezza e nella responsabilità delle carceri.

Eppure la democrazia si afferma nel momento in cui hanno comunicato ad affermarsi in Europa le indicazioni di un fine della pena per la rieducazione, per il recupero, per la restituzione. Solo quando la pena sarà indicata come un diritto per chi ha commesso crimini sociali di diventare una risorsa sociale a favore della società, allora soltanto l’esemplarità, un tempo sostenuta dalla esposizione della tortura, potrà essere applicata sul piano etico della difesa della società. Il diritto pena allora sarà la prima espressione di una critica della ragione penale capace di attivare una democrazia sensibile. Dalla pena come punizione alla pena come diritto per la società. Il passo è questo. Del carcere si parla per dire delle condizioni, non delle relazioni. Del carcere si parla senza parlare dei carcerati. Senza intervenire sulle misure delle pene e sulla qualità della efficacia sociale. Non si fa distinzione tra i reati. Si incasellano senza adeguata corrispondenza di trattamento. Ci sono i comuni, quelli di reati minori, gli autori di crimini orrendi, le organizzazioni mafiose. Queste ultime sono trattate secondo disposizioni d’eccezione. Non si da conto per esse dell’intricarsi di una guerra sociale e di un esercizio di potere e di sfruttamento economico. Non si riesce a parlarne senza confondersi, tanto è l’intricarsi di effetti e cause diverse e complesse. Ci vuole il concorso di tutti, dai magistrati ai cittadini, dai legali agli illegali, dalle forze di polizia ai cittadini. Il detenuto deve poter diventare una risorsa per la società. Deve essere messo in condizioni di essere presente nella società, di scegliere di essere presente nella società, seppure in detenzione. Diventare una risorsa sociale non significa indulgere o scarcerare. Significa ricostruire dove le costruzioni non era tali. Significa far diventare ciò che non si è stati e che si era come persone che non hanno mai avuto modo di essere tali, travolte da condizioni e perduti alla possibilità di una diventa che solo la società comune può permettere. Le condizioni spiegano le cose, sono le relazioni che le cambiano. Bisogna cambiare le relazioni, in carcere, nella comunità carceraria, e tra il carcere e la società.

Da anni si svolgono i corsi di filosofia in carcere. Particolarmente a Bellizzi e a Carinola. I risultati, eccellenti. Si fa pratica della filosofia, si fa etica. I risultati sono espressi nei testi corrispondenti a quelle esperienze. Sono tante le attività in carcere, e di tante c’è bisogno ancora. Occorre considerare il carcere nella sua interezza, nella sua complessità, non per sfuggire a responsabilità, ma per ritrovare le vie sociali alle identità smarrite o mai avute, distorte o mai vissute.