Posts in Approfondimenti

Il sogno di Adorno

Gennaio 27, 2023 Posted by notizie, Approfondimenti 0 thoughts on “Il sogno di Adorno”

Ricordo il sogno di Adorno. Lo lessi nel suo ultimo libro. Diceva che era ricorrente, sognava di essere, vivendo, il desiderio di vivere di quanti erano morti ad Auschwitz. Il ricordo è come il sogno che è ricordo ancora. Si confondo. La memoria è doppio fondo. In ogni ricordo ritorna quello che è accaduto insieme a quello che non è avvenuto in quello che accaduto. In ogni ricordo c’è il desiderio come del sogno si dice che è l’interpretazione del desiderio, la sua rappresentazione confusa. Gli antichi dicevano che il sogno veniva dagli Dei. La religione è l’ordine del desiderio che si traduce nella confessione del voler vivere. La guerra uccide il desiderio, cancella i sogni e il ricordo, come se non fosse accaduto nulla prima che con le armi si toglie la vita, che se non ci fosse mai stata Shoah.

Confesso che non capisco e non voglio nemmeno capire e spiegarmi. Devo confessarlo. Ci sono cose di cui non possiamo farci capaci, non possiamo contenere, capire. A comprenderle si manda in frantumi la capacità di misura dell’umano. È questo l’ordine di confessione del desiderio. È la capacità dell’immaginabile, il recipiente interiore. Si dice che l’utopia indichi nessun luogo, che la parola significa ciò che non ha luogo, cui non si può dar luogo, non si può mettere in essere. Si stabilisce così che l’essere ha luogo, è recinto. Senza luogo non c’è essere, dove non c’è luogo, non c’è nulla, neanche il nulla c’è, neanche il nulla può essere. Luogo è lo spazio del tempo. Ogni luogo è fatto di tempo, si racconta. La memoria è luogo. Utopia è luogo di cui non si ha memoria. Si può raccontare senza poter ricordare che sia mai accaduto. C’è dunque un ricordo di ciò che non accaduto. La sua memoria non è in nessun luogo che si possa indicare sulla carta.

C’è però un luogo che non è in nessun luogo. L’utopia ha luogo dentro ognuno. Il luogo interiore è in nessun luogo. Sono qui e non qui, non posso indicare un luogo dove trovarmi. Sono qui ora. Ognuno è nel luogo del presente, del proprio essere presente, del rispondere della propria presenza, del dire della propria essenza nell’assenza di questo e quel luogo. L’io è nel luogo del desiderio, uno confessa a se stesso la propria assenza, la mancanza d’essere e consistere. La preghiera dice la propria precarietà. L’essere è non. Lo stare ad essere come rivolti a quel che dà luogo alla vita. Ognuno è dell’altro, per un altro, con un altro. La religione dice del proprio rilegarsi, impaginando il tempo facendo della memoria un libro interiore, fatto voci, come le parole nel parlarsi interiormente sono note di voci che risuonano. Il desiderio è sempre dell’altro, parla dell’altro che si diventa e che si è stato e che non si è e mai diventato. Ognuno è il desiderio di un altro. È sempre l’altro a suscitarlo, il desiderio viene dall’altro. È dell’altro. Viene da chi non è mai stato prima, viene da un prima mai accaduto, da un altro che non si mai incontrato prima e che non mai smesso di venire. C’è un desiderio della memoria, uno ha ricordo di qualcosa che non è mai accaduta prima. La pace non c’è mai stata, eppure ne parliamo come di cosa che sentiamo. È come per le idee innate, è di una memoria innata e che ritorna come il sogno che si interpreta. Il desiderio ritorna alla mente, viene. L’altro che viene ritorna. Chiunque viene al mondo fa ritornare la vita. Si prega.

Oggi è il giorno della memoria. Ritorna il ricordo, il sogno, il desiderio di quello che non è avvenuto in quello che è accaduto. I campi di concentramento sono quelli in cui si concentra l’indifferenza, sono in un luogo lager di reclusione. Accade quando si è reclusi sotto minacce della vita. L’indifferente è chi non custodisce la vita nella sua esistenza, non si fa custode della vita nella sua vita, la vita dell’indifferente non è significante della vita. La sua vita non significa nulla, la sua vita non dà significato alla vita. L’indifferente tiene alla sua esistenza, non ha desiderio di vivere. L’indifferente è l’insensibile, annulla il sentire l’altro, non si fa luogo all’altro in sé, né ha luogo di sé in se stesso, ha desiderio, non si dispiace e non dà gioia di vivere. Quelli che dicono che non sapevano nascondo la vergogna della propria indifferenza. A questa vergono ognuno è esposto. Sappiamo tante di cui non abbiamo prove e nomi, però le sappiamo. Sappiamo di questa guerra come altre volte tutti sapevano e si dicevano che era meglio non sapere.

La violenza è quando non si sente e non si respira l’altro. È quando non si ospita quell’Altro significante di ogni altro, prende il nome al genitivo di ciò che è solo voce, senza nome che si possa pronunciare, perché è vano pronunciarlo. Diciamo “Dio” che nella grammatica del greco è il genitivo di Zeus, in latino Deus, diciamo della voce dell’alito, del vento, dello zefiro, del respiro della vita. Diciamo “Dio” nella declinazione del genitivo di ciò che non ha nome se non della voce sola, come è la vita, il vento. Zeus, Jahve, Allah, nomi di voce della vita, nome dell’ordine del desiderio di vivere.

L’eccidio degli Ebrei del Novecento c’era già stato nei secoli prima. C’era già stato l’esodo, c’era già stato il ritorno, c’era già stata la cacciata dal paradiso, dove la vita aveva luogo senza segni di confini, dove il corpo non era segnato. Dove non si segnavano i corpi, dove non c’erano tatuaggi numerici, dove non c’era nemmeno la memoria e il desiderio non aveva l’ordine della confessione di vivere, non era una promessa, non c’erano prestazioni.

Togliere all’altro il desiderio è come togliergli la voce di Dio, quale che sia il nome che lo pronunci, è togliergli la voce che lo pronuncia. Non capisco, non sono capace di capire. Non posso perdonare me stesso di esserne capace. Non posso, non devo, per la vita di cui ogni vita è desiderio. Ognuno è significante nella propria vita del desiderio della vita. Il desiderio è il senso di significato nascosto in ogni segno che risuona come nota a voce che la pronuncia.

Quante volte c’è stata una Shoah, quante volte accade che si voglia l’esclusiva della vita e del genitivo di un nome che indica il desiderio? Quante volte il desiderio diventa l’annullamento dell’altro che lo suscita? Quante volte al giorno deve essere il giorno del desiderio della memoria come desiderio della vita, come ordine del vivente di custodire il segreto della vita? Non si può perdonare, si può dare per dono solo l’imperdonabilità a se stessi di farsi capace, di capire, quello che non si deve capire, che deve restare fuori dalla confessione del desiderio della vita. Fuori dall’umano, nell’ira di un Dio lasciato solo.

 Oggi, giorno della memoria, bisogna darle voce, farla parlare, ascoltarla, sentirla. Pregarla. Nella preghiera il desiderio diventa speranza, si affida all’avvenire, all’avvento, al vento, alla voce che si sente senza che si possa fermare, ma che si può raccontare. Si spera che non avvenga quello che è accaduto. La memoria non è solo di date e dati, non è solo l’archivio della storia, di quello che è stato visto ed è accaduto. Le date si segnano, bisogna insegnarle, tenerle dentro, passare dal segno al suono, esserne segnati, diventare ricordo, risuonarne. La parola diventa voce, come la nota è del suono. La parola è della voce che si pronuncia. Noi che impariamo a memoria dobbiamo ancora imparare la memoria. Noi che conserviamo banche di dati dobbiamo apprendere la memoria dove ad ogni nota corrisponde il suono della voce della vita che viene e che ritorna al mondo come non è mai stato prima. Oggi che è il giorno della memoria, ricordo e sogno il sogno di Adorno.

Giuseppe Ferraro

la scuola ristretta

Agosto 31, 2020 Posted by Approfondimenti 0 thoughts on “la scuola ristretta”

Ho visto di nuovo quei camion militari che mi sono rimasti negli occhi di quella sera. I camion militari di Bergamo. Quella sera in fila funebre è ancora là, alla parete della stanza della memoria dei giorni della peste polmonare. Quegli stessi camion, non in fila questa volta, non funebri, ma da trasloco li hanno fatti vedere alla televisione che portavano i banchi per la scuola. I banchi nuovi, quelli detti “monoposto”. Sono due immagini che fanno pensare a un passaggio al nuovo giorno, dai vecchi ai bambini, da quelli che ci hanno lasciato in quei giorni tristi e quelli che apprendono il mondo nuovo nei giorni che vengono.

È stato per poco. L’immagine della generazione che dà storia al tempo ha fatto presto a intorpidirsi riflessa nell’acqua che perde trasparenza. Banchi monoposto? Non sono monoposti anche quelli già in dotazione nelle scuole? I “nuovi” sono solo più stretti, hanno la metà della superficie del piano. Ci vanno meno cose, libri, quaderni, pennarelli, braccia … sono “banchi ristretti”. Questo, per consentire che ci sia maggiore distanza, cioè perché ci sia distanza misurabile in metro tra un banco e un altro. Così si “guadagna” più spazio in quello che c’è, vi entrano più banchi!

Una spending review! Ancora! Banchi ristretti come si usa anche, tristemente, per le carceri, ristretti sono gli spazi e la libertà. Il rimando può suonare fastidioso. La logica però della spending review e del restringimento è tale. I soldi per quei “banchi ristretti” non potevano essere spesi per rimettere a posto le scuole abbandonate? Non sono poche in un paese che già aveva ristretto la scuola, restringendo gli spazi per dare capienza maggiore di alunni per classe. La logica è sempre quella dell’emergenza e del restringimento, mai quella che guarda al futuro, al progetto di scuola avvenire. È la logica del tampone, si procede a tamponare l’emergenza, così come a fare i tamponi, senza dare nuove prospettive, perché tutto sia come è stato prima. E non per ritornare a come prima non è stato e vivere la gioia del presente e dell’abitare questa terra senza confini d’esclusione, ora occultati nel “distanziamento sociale”.

Anche l’apertura della scuola, così pressante, finisce per restringere l’esigenza educativa e il valore della scuola come funzione di intrattenimento per non interrompere il ciclo della fabbrica sociale. Anche questo bisogna considerare, forse sarà con sospetto, certo, ma se non si aprono le scuole come tenere i bambini e i ragazzi a casa? Non sarà per un problema sociale, di sicurezza, a garanzia di apertura dei luoghi di lavoro che verrebbero a trovarsi a soqquadro? È la parola, “soqquadro”, che porta due “qq”, a dire la confusione.

La richiesta pressante della apertura delle scuole non riguarda nuove forme educative, nuove relazioni, tempi dedicati, didattica, trasmissione di sapere. È ancora la logica di ritornare a tutto come prima, solo un po’ più ristretti. Quei banchi sono un nuovo “taglio” alla scuola. Non solo un taglio dello spazio disponibile di banco per ogni alunno. Immagino i bambini della primaria, che già è assurdo che siano costretti a stare nei banchi. Immagino quando si ritroveranno in quelli ancora più ristretti, inscatolati. Così si fa a tenerli? Il taglio non riguarda solo spazi e i fondi, riguarda il valore e la funzione educativa dell’istruzione, che è venuta progressivamente a restringersi quando nella scuola si è trattato quasi solo, per molti casi, di “tenere la classe” invece di farne luogo di apprendimento. Fin quando la scuola sarà uno spazio di contenimento e non un luogo, la logica che l’offende nell’emergenza senza prospettive rimarrà sempre più devastante. Ai provvedimenti stringenti si risponde con azioni restringenti. Significa non avere alcuna idea della scuola. Come sempre a Ministro della scuola è chi non la vive, non la sente, non la conosce, non l’ama.

L’unica innovazione che si pensa di apportare sul piano dell’istruzione è il “coding”, sinistramente troppo vicino a “covid”. Fanno pensare alle parole che Orwel diceva della “neolingua” e del “bipensiero” che avrebbero dominato la scena del suo “1984”. Quel romanzo e quel titolo sono già avvenuti e non ce ne siamo accorti, pensiamo che Orwel si sia solo sbagliato sulla data, che ancora non è così. Invece no, quella condizione è “data”, la scuola si restringe perché così si rientra nella misura di uno spazio per metro. La logica è la stessa, il restringimento della libertà, del movimento, della relazione, dell’educazione, dell’apprendimento.

C’è chi continua a proporre il restringimento anche del tempo, con ore scolastiche già non più di sessanta minuti, per portarle a quaranta, poi diventeranno trenta, poi venti, come già sono quelle che restano, quando a scuola chi insegna deve innanzitutto “tenere la classe”.

I sentimenti sono fatti di tempo. Quello che passa e rimane al fondo di una sedimentazione di apprendimento del Sé. Il tempo si sentimenta. Si assorbe nei sensi, nell’olfatto, nell’udito, nel gusto, nella vista, nel tatto. La scuola ha il suo odore, ha il suo gusto, fa vedere dentro, è ascolto, ti tocca dentro. C’è quel passaggio dai sensi ai sentimenti che solo il ricordo accorda e fa risuonare interiormente. Perderemo il ricordo che sentimenta i sensi facendoli risuonare dell’apprendimento.

Bisogna aprire le scuole, c’è bisogno di una “data certa”, non c’entrano per niente il tempo della scuola, il luogo, l’apprendimento, la relazione insegnante. Non contano. La scuola dell’obbligo in Italia è arrivata con la fine dell’obbligo del servizio militare. Nello stesso anno. Ci penso sempre e m’inquieta. Penso poi all’evasione scolastica che risponde all’esigenza della libertà negata, alla libertà di apprendere, quella della curiosità, della meraviglia, del voler sapere, dell’imparare. L’evasione è sempre per la libertà. E nessuno è libero da solo, la libertà è fatta di legami. La scuola è legame. È così difficile da capire?

Bisogna aprire le scuole, perché se no, che fanno i ragazzi a casa? E come si fa a garantire la sicurezza sociale e l’ordine ora che i confini non sono più sul fronte geografico, perché il nemico è interno, è interiore, siamo noi. Davvero ci manca la memoria dell’amore, che si apprendeva a scuola imparando le poesie.

Italie

Luglio 29, 2020 Posted by Approfondimenti 0 thoughts on “Italie”

La colpa non è della scuola, perché Palamara a scuola ci è andato. Non è della scuola la colpa, perché Fontana ci è stato. Anche i carabinieri di Piacenza hanno fatto un corso, sono stati alla scuola dell’Arma. Chi siede in Parlamento dovrà pure essere stato a scuola, ma quando è chiamato a parlare del credito avuto dall’Europa esce fuori tema e divaga sulle pistole elettriche e sulla difesa della polizia. La colpa non è della scuola. La colpa allora è dello Stato? È della classe politica? La colpa è del Potere, che è una brutta scuola. Basterebbe un’inchiesta “a tappeto” e il Parlamento subirebbe uno scossone. La colpa è dell’evasione sociale dell’istituzione. Chi arriva al potere fa della politica l’evasione istituzionale.

L’Italia è stata più sentita come unione quando non era unità. Da Giambattista Vico a Leopardi, da Manzoni a Giannone, da Verri a Pisacane e tutti gli altri che l’hanno sentita, l’Italia è stata un solo Paese quando non era uno Stato. Un patriottismo senza Stato allora, così sono anche i populisti sono anti istituzionali. Il nostro è un Paese senza Stato, non ha sviluppato affezione per le Istituzioni. La burocrazia favorisce l’evasione e la disaffezione. Diventa la selva oscura, la zona grigia dove si disperdono i colori. La burocrazia è il paradiso fiscale della corruzione. Un paradiso alla rovescia rispetto a quelli che si definiscono tali, ma l’effetto è lo stesso. Basta riflettere che i paesi chiamati “paradisi fiscali” non hanno mafie, perché riciclano denaro a cielo aperto. La burocrazia è un paradiso per le mafie, per i corrotti, un paradiso ipocrita, perché favorisce quel che dice di impedire. Senza la burocrazia non esisterebbe la corruzione. Senza la selva delle tassazioni si pagherebbero le tasse. Sono i raggiri, i ritardi, i personalismi, che attivano “prestiti illeciti” ed estorsioni. Qui il potere è la persona, non lo Stato.

Si capisce anche perché si grida al sospetto del regime del grade fratello, non per un’ossessione di un passato statalista senza istituzioni come fu quello fascista. Il sospetto è di chi vive l’inganno. Si ha nella testa. Chiunque ha potere lo usa a suo vantaggio. Non c’è la “fiducia nelle istituzioni”, c’è il patriottismo di una Patria senza Stato. Il Paese è lasciato all’incuria, anche il territorio è corrotto, nel senso che non è curato ma selvaggiamente depredato e cementificato o abbandonato.

Ci sono tante Italie, non una. Lasciate alle prepotenze di un campionato di sviluppo economico falsato da rigori concessi e squalifiche ritardate. Ne soffre la passione quando manca la disciplina. Abbiamo una carta costituzionale che nei suoi 12 principi è il manifesto che ogni partito, ad adottarlo, vincerebbe le elezioni, sono però gli articoli, le applicazioni che li negano tutti e dodici. L’Italia è un Paese sulla carta, incartato. Finanche le carceri, a leggere la Costituzione, sarebbero scuole di libertà. nella realtà le carceri sono anticostituzionali. Più ancora l’uguaglianza sociale, indicata in quei principi, sarebbe l’espressione del benessere e della sicurezza nella piena libertà. Lo Stato siamo noi, ripeteva Calamandrei. È però il “noi” che manca ad ogni io che abita e vive questo Paese, che resta straordinario nel mondo.

Qui sono nate le prime e più antiche città, nell’Italia del Meridione. È il Paese che può vantare più Città con cultura e tradizione millenaria e con una identità forte, da Venezia a Palermo, da Napoli a Genova e poi Firenze e poi Reggio e poi Taranto e tutte le altre a seguire. È l’unico paese che può elencare città di tale importanza e rilevanza storica. Italie, non Italia. Individui animati da passioni inquinate da sospetti e intelligenze deviate da furbizia. Siamo sulla carta quello che non siamo nella società, siamo nelle regioni quello che non siamo nelle comunità. È il Paese che deve farsi scuola. La colpa non è della scuola, la colpa è che nelle scuole e nelle università ovunque domina la corruzione, il potere è personale.

Quello che è accaduto a Piacenza è l’eccesso di qualcosa che in questi anni si è venuto denunciando puntualmente. È certo un vanto dell’Arma riuscire a fare un processo a chi la contravviene all’interno, ma arriva dopo, quando qualcuno muore o quando non si può tenere più nascosto quello che tutti cominciano a sapere. Si dice che si ha bisogno di prove. Resta sempre quel manifesto di Pasolini, perché fu un manifesto, non un articolo quello in cui diceva «Io so tutti questi nomi e so tutti questi fatti (attentati alle istituzioni e stragi) di cui si sono resi colpevoli. Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi.»

L’Italia deve farsi scuola, è una Patria senza Stato, un Paese senza Società, pullula di associazioni e di comunità separate. L’effetto è lo scarto evidente fra legalità e moralità. Quello che è legale non sempre è morale e quello che è morale spesso è illegale perché considerato tale dall’interesse societario.

Quello che ancora più sorprende dei fatti di Piacenza, è il “farsi vedere”, l’ostentazione, il telefonino, lo stesso dei bulli, in posa di cacciatori, mafiosi che debbono far vedere, perché è quello lo scopo finale cui si tiene. Il potere è il successo, così come al parlamento non si discute del Paese, ma per farsi vedere, per avere il potere non come mandato istituzionale, ma personale, per fare meglio il peggio che dicono che sta facendo chi è al posto che vogliono coprire.

Il Potere si ha quando si dà. Ha potere chi dà potere di benessere. Si ha quello che si dà, chi non dà non ha niente, e niente gli rimane. Quando il potere si trattiene per sé, diventa prepotenza. Sorprende l’ostentazione di chi commette azioni criminali e ingiustizie. Si fa vedere in festini ripresi da telefonini. Deve avere successo, non gli importa quello che ha fatto succedere, “non lo vede”, non se ne avvede. L’ignoranza è prepotenza.

Pasolini, sapeva ma non aveva i nomi, così come tutti abbiamo sempre saputo di Ustica come di Cucchi o del giovane parà ucciso e di tante altre cose all’interno dei palazzi e delle caserme, delle istituzioni e degli stessi luoghi del sapere. Poi arriva l’esposizione, l’ostentazione, la casa in Sardegna intestata al prestanome, le gite in barca con i solfi pubblici, poi arriva anche Report che dice quello che tutti sanno e che nessuno ricorda più il giorno dopo.

L’Italia deve farsi scuola. È la sua occasione, il momento è questo. Il Covid19 ha fatto capire tante cose, ha fatto emerge quanto ci sia di comunità in questo paese e quanto manca invece di società, finendo nella sacca di un patriottismo anti istituzionale. Cominciamo allora da qui a riflettere su Libertà, Sapere e Potere

Pasolini come educatore per una pedagogia dell’intimità

Ottobre 31, 2015 Posted by Approfondimenti 0 thoughts on “Pasolini come educatore per una pedagogia dell’intimità”

Delle “Lettere Luterane”*, quella di Gennariello, parla di Napoli e dei Napoletani. Pasolini dice dei Napoletani “in concreto”, come, cioè, li “immagina”. E non è questo un controsenso dire “in concreto immaginare”, perché Pasolini rileva, già nella prima lettera sui “giovani infelici”, come la realtà sia espressione del sentimento, perché reale è ciò che “si prova”. Posso affermare perciò che sia anche quello che ci mette alla prova, quello che sentiamo. Così che i giovani siano infelici non sarà un “dato”, ma quello che si “prova” a vederli preda del “fascismo dei consumi”, come Pasolini fa capire. Allora i “Napoletani così come li immagino, sono così come li sento e come anche provo a sentirlo in un paese come l’Italia che li estranea ed è così diverso nella serie delle “scenette” raccontate nei “bassi” rispetto alle “scenette” della televisione. Il Napoletano è “prova provata” di una diversità che vale a prova di quell’innocenza raccolta nella necessità di capirsi: «Coi Napoletani mi sento in estrema confidenza, perché siamo costretti a capirci a vicenda. Coi Napoletani non ho ritegno fisico, perché essi, innocentemente, non ce l’hanno con me.» A Napoli la realtà è come si prova, reale è quello che si può immaginare che sia. Così anche “Gennariello” è immaginato, lo stesso diminutivo “Gennariello” è “immaginato, perché in napoletano suona  diversamente, come faceva osservare Erri de Luca. Si dice infatti “Gennarino” e “Gennariniello”. Così anche il nome “Gennariello” è come in italiano s’immagina che sia il diminutivo del nome. «Coi Napoletani posso presumere d’insegnare qualcosa, perché essi sanno che la loro attenzione è un favore che essi mi fanno.» Insegnare è dunque uno scambio di favore. Il sapere che viene all’insegnare si pone tra questo scambio che è «pieno di allegria e di naturale affetto.»

Sentire, risentire, sentimento, risentimento, cessazione d’amore, come si legge nella prima delle Lettere, insomma l’affezione, per come si dà in affetto e afflizione, sono queste forme mutanti dell’animo a dire della realtà provata o della “parola provata” di Pasolini. Fino a prova contraria, fino alla prova contraria o come fino alla “parola contraria”, per evocare ancora Erri de Luca, che certo non si può dire in continuità con Pasolini per quanto si possa andare immaginando una relazione, che finisce là dove sembra allacciarsi in una posizione che è scomoda, ma di una diversa scomodità, di linea diversa. Scomodarsi è anche l’espressione di prendere una decisione che ti fa uscire dalla fila di posto dove ti trovi collocato. “Non ti scomodare per me o per questo”, si dice per invitare a non avere premura o a fare cosa che disturba quello di cui sei alle prese o perché stai comodamente al tuo posto. “Non ti scomodare” è espressione anche ambivalente, perché indica anche un rimprovero, un risentimento verso chi fa qualcosa contro la sua voglia in quel momento. Pasolini è un personaggio scomodo, come altri che lo sono e lo sono stati. È scomodo nel senso però che ti fa scomodare dal tuo posto, non ti lascia in pace. Ti scomoda, ti fa alzare dalla sedia, ti fa lasciare il posto di fila, ti fa prendere un impegno per una causa non presa. Ti fa immaginare quello che c’è, mentre che è tanto più rassicurante non immaginarlo e lasciare che la “realtà” si presenti nel suo massiccio e macigno di dati irremovibili dell’”è così”.

«Considero anche l’imbroglio uno scambio di sapere» si legge subito prima l’immagine che lo spiega nel racconto istantaneo di quel giorno di un’effusione d’affetto con un napoletano che nel momento stesso di quell’effusione provò a sfilargli il portafoglio. Glielo fatto notare, e il nostro affetto è cresciuto». Lo scambio di sapere è uno scambio d’accrescimento di affetto. Non importa quello che sai, importa che sei tu a saperlo. Nell’insegnare e nell’apprendere ci si scambia quello che si è e s’immagina, ci si scambia quello che si prova a stare insieme.

II.

Pasolini come educatore, allora. Educa a questo insegnare e apprendere. Educa all’affezione. Educa ai sentimenti. Bisogna intendere anche in questo senso il motivo di critica più radicale che Pasolini muove al progresso, dichiarando che non corrisponde come tale allo sviluppo. Uno scarto che deve essere ripreso e compreso. A leggere il testo di “Gennariello” si comprende ancora per il riferimento ai Napoletani che «non sono cambiati. Sono rimasti gli stessi napoletani di tutta la storia». Nel sottolineare questo non cambiamento, Pasolini reclama di prestare attenzione al fatto che non vuole essere inteso come un “conservatore” ovvero come uno che rifiuta i tempi. La prospettiva è un’altra, si potrebbe intenderla anche nei termini in cui Aristotele scriveva dei sentimenti che si esprimono con la voce e che sono comuni a tutti. È dunque questo “comune” che tiene insieme i diversi e i differenti che il progresso omologa, neutralizzando e annullando differenze e diversità, scambi e prove di sapere siano possibili. È dunque in questa prospettiva che il “napoletano” diventa il banco di scuola per una pedagogia che va ben oltre la localizzazione, per farsi espressione di una forma di pedagogia dello scambio, dove anche “l’imbroglio” diventa una prova, il mescolare, il darsi attenzione di sapere, senza imporre un sapere a un altro, ma scambiandolo, imbrogliandolo, al fondo resta l’affetto, il mischiarsi, il contagiarsi, lo stare insieme, l’intimità.

Dunque, immaginare, provare, sentire, ingarbugliare, imbrogliare, scambiare sapere, sentimento, affetto e affezioni, darsi il favore dell’attenzione sono queste le linee introdotte da Pasolini come educatore.

Pasolini spiega quindi così l’ambientazione napoletana del suo trattato pedagogico: Napoli è l’ultimo villaggio plebeo, dove non ci sono separazioni di classe. Pedagogico è l’ambiente. Il luogo è educativo. Il luogo non è indifferente. È scelto. È immaginato. È provato. È pedagogico, educativo, fuori da ogni canone curriculare, prestabilito. Il luogo è Napoli. In questo luogo «La vitalità è sempre fonte di affetto e ingenuità».

Il 1975 è stato un anno di boa per la storia dell’Italia del dopoguerra. Segnava un passaggio delle “lotte operaie” e di trasformazione delle alleanze dei partiti. Cresceva “l’utopia armata” che si sarebbe spenta subito all’inizio del decennio successivo. Li chiamarono, e li chiamano, ancora “anni di piombo”, per chi li viveva e li ha vissuti furono anni di slancio, il Paese non era diviso come poi è stato, ogni giorno era una manifestazione di partecipazione, di studio, d’incontri. Leggevamo tanto e riversavamo per le strade, nelle occupazioni di casa per chi non l’aveva, per l’autonomia dei territori sociali contro l’austerità che finiva appena allora, e che aveva lasciato apprendere un impegno nuovo su se stessi. Autoriduzioni, autonomie, contro ogni autoritarismo. L’autonomia della pedagogia rientrava in questo corso. Appena qualche anno dopo si chiudeva il ciclo di un decennio vissuto da soggetti molteplici. Diventare soggetti sociali era insieme dare immagine di forme di vita sociali differenti, erano le forme del comune, dello stare insieme di donne in movimento, l’essere giovani era espressione di una soggettività sociale prima sconosciuta, c’era un’alleanza tra generazioni e generi vissuta anche in contrasto ma che proprio per tale era di ricerca, d’invenzione di nuovi mondi. Se fino ad allora il nuovo mondo era stato dell’esplorazione, in quegli anni il mondo nuovo era quello che s’immaginava della realtà. Era il mondo interiore, che si costruiva con le pagine dei libri, con gli incontri, i viaggi, i concerti, il ritrovarsi insieme.

La lezione di Pasolini era di quel rapporto di trasformazione del fuori e dell’interiore. Forse Pasolini più di ogni altro è stato chi ha portato fuori la propria intimità, la propria affezione. Allora si diceva che il privato era politico, meglio si sarebbe detto che il sentimento è politico, l’affezione, l’intimità è politica, perché si è intimi nell’amicizia, nell’amore, del toccarsi, nello starsi accanto senza precipitare nella collocazione di giudizio e istituzionalizzazione di un gesto. L’intimità è come il misto ed è la vita tutt’insieme, il ritrovarsi come una vita, la propria, nella vita impropria, che ha il volto dell’altro, l’immagine dell’animato.

III-

Il “trattato pedagogico” di Pasolini continua allora così su questa lezione dell’immaginare ciò che c’è, di sollevare il reale all’immaginazione, di educare l’immaginario come si dice così di quel che il reale produce in termini di pubblico e opinione, che scade in pubblicità e consumismo. Fu questa la critica più radicale che Pasolini muoveva all’idea di un progresso regressivo, senza sviluppo, perché faceva, e fa, regredire a uno stato di soggezione, di sottomissione ad un “fascismo” che operava nella forma di una microfisica del potere, attraverso il controllo delle scelte personali, fino ad arrivare a quella che oggi viviamo e che possiamo chiamare “democrazia reale” e meglio ancora “democrazia a consenso informato”, non partecipato. Ognuno deve essere informato dei fatti, così è in termini giudiziari. Se non leggi e ti capita di subire una vessazione istituzionale sei tu stesso, ognuno, responsabile di non avere provveduto a leggere le informazioni. Il consenso informato interviene e devia la stesa relazione di cura. Informato e non partecipato. Sei avvisato, avvistato. Ogni forma di potere interviene sulla vista, sulla percezione, su quel che devi vedere e percepire e sapere.

Il “trattato pedagogico” di Pasolini continua così sull’immagine di Gennariello, su come lo immagina e su come può essere egli stesso, che scrive, immaginato. Il testo prende lo stile della sceneggiatura. Pasolini procede come regista. Era anche quello il tempo in cui fece abiura delle sue opere cinematografiche sulla “trilogia della vita”. Si tratta di un operare su una “critica della visione” su ciò che si percepisce e si viene a sapere. È questo il piano d’immanenza della sua pedagogia.

Pasolini immagina Gennariello come nell’oleografia dello scugnizzo napoletano, che però è al liceo, quindi è già un “miracolo”, una «eccezione», ecco questa è l’espressione. Dobbiamo allora intendere che dove si danno “eccezioni” non è possibile una pedagogia uniforme, “curriculare” secondo “normalità” di regole. Dove non è possibile la regola, nemmeno l’eccezione ne diventa la conferma. Non si potrà tenere una scuola normale e nemmeno d’eccellenza, come si ripete. Dove c’è l’eccezione si può tenere una scuola eccezionale, una pedagogia d’eccezione. Questa di Pasolini è tale ed è rivolta a se stesso nel mentre che è diretta a Gennariello o Concettina, perché l’uno e l’altro in una trasformazione affettiva che il testo lascia sorprendere da un rigo ad un altro, «Basta in tal caso che i tuoi occhi siano ridarelli: come del resto se anziché essere Gennariello tu fossi una Concettina».

È una pedagogia delle “interruzioni”, dei ripensamenti, delle divagazioni e parentesi imposte dalle circostanze dove il soggetto insegnante divaga, aprendo e chiudendo stanze di sapere, andando a raccogliere esempi altrove, nella quotidianità, argomentando, aggregando passando tra banchi, nominando cose e luoghi, facendo ritrovare quello che si sa dove si è, Chi insegna in questo modo apprende quello che sa come non sapeva, trasmette il desiderio, fa immaginare, fa sentire dentro quel che si ascolta e apprende. Entrambi nella relazione si presentano su quel che s’immaginano.

La presentazione che Pasolini fa di sé è quella che ricava dall’opinione corrente, da quel che s’immagina che sia, e di fatto è in quel tempo: «uno scrittore-regista, molto “discusso e discutibile”, un comunista “poco ortodosso e che guadagna dei soldi col cinema”, un uomo “poco di buono, un po’ come D’Annunzio”». Chissà oggi come sarebbe “immaginato” e chiamato Pasolini. Sarebbe questo un esercizio identificativo importante per capire quale figura possa esprimere la critica all’esistente in ordine alla visione delle cose. Certo sarebbe comunque un “uomo ben informato delle visioni imposte sul consumo e dal consumismo”, di certo uno che allora metteva sullo stesso piano gli estremi, “l’extraparlamentare e la signora fascista”, “l’intellettuale di sinistra e il marchettaro”. Univa gli estremismi senza diventare centrista. Usciva perciò dalle coordinate geometriche di destra e di sinistra e centro. Era la sua una pratica “eidetica” per una geometria dei sentimenti. La sua fu una pedagogia del non conforme, del non conformismo, e per essere anticonformista.

«Per queste ragioni sappi che negli insegnamenti che t’impartirò, non c’è il minimo dubbio, io ti sospingerò a tutte le sconsacrazioni possibili, alla mancanza di ogni rispetto per ogni sentimento istituito. Tuttavia il fondo del mio insegnamento consisterà nel convincerti a non temere la sacralità e i sentimenti, di cui il laicismo consumistico ha privato gli uomini trasformandoli in bruti e stupidi adoratori di feticci.»

È questo il messaggio che sta al fondo di ogni altro nella “pedagogia” di Pasolini. La sua è la rivolta contro il laicismo consumistico. Pasolini si sfila dalla linea di contrapposizioni tra laico e religioso, che attribuisce il sacro al secondo e il feticcio al primo. È un insegnamento questo che aspetta ancora di essere compreso ed affermato, saputo. C’è una sacralità del laico, c’è una sacralità del popolare, intima della vita stessa. Una religiosità senza confessione. Se solo si afferma una tale sacralità senza confessione, se solo si affida il sacro al laico, si comprende anche una religiosità della vita fuori dai confini di questa o quella territorializzazione dei sentimenti e della fede. Credo che sia l’intimità l’espressione del sacro della vita. E dico “credo” perché di questa sacralità dell’intimità fa fede una religiosità senza religione, perché senza confessione. L’insegnamento comporta una tale esigente intimità e sacralità di nessuna preghiera che non sia l’ammirazione e lo stupore della vita che solo l’incontro ti fa vivere facendoti scoprire di essere una vita nella vita. Facendo anche scoprire che l’ambiente non è semplicemente il dentro, il luogo, il paese in cui viviamo, non è semplicemente l’ambiente perché è vita e siamo vita, ogni vivente vive della vita che è nella vita che ha. Esistendo e vivendo. L’intimità è quando l’esistenza è vita e la vita esiste. Quando l’una è vivibile e l’altra è immaginabile come mondo interiore. Una tale pedagogia è educazione ai sentimenti. Imparare a vedere. Rilke prende subito la mano intervenendo in ogni luogo in cui si parli di sentimenti per dire della sua pedagogia dell’imparare a “vedere dentro”.

«Sul sesso ci soffermeremo a lungo, sarà uno dei più importanti argomenti del nostro discorso … scandalizzeranno molto, al solito, i lettori in Italia, sempre così pronti a togliere il saluto e a voltare le spalle al reprobo.» Ecco, non deve sorprendere questo passaggio dal sacro al sesso, perché su questo si danno le confessioni e le religioni, su questo si dà il “vedere” come per quel che si può vedere e non, che è da vedere e non vedere, far vedere e non far vedere. Tra ciò che è tollerato e non tollerato, sopportato e non, ciò che è «una contraddizione in termini. Il fatto che si “tolleri” qualcuno è lo stesso che lo si “condanni”. La tolleranza è una forma di condanna più raffinata.» La colpa di essere diverso, resta identica per chi dice di tollerarla.

«Cani rabbiosi, stupidi, ciechi» si sono avventati su Pasolini, qualunque cosa dicesse prendendo posizione, che fosse sull’aborto e altro, «Cani rabbiosi, stupidi, ciechi», ancora una espressione del vedere, la rabbia, la stupidità, la cecità di chi ha occhi per vedere solo ciò che gli si dice che sia confessabile a vedersi. Quanti vedevano solo la sua «diversità» senza sentire, senza ascoltare, senza vedersi, senza vedere dentro.

IV

«Bisogna avere la forza di una critica totale, del rifiuto, della denuncia disperata e inutile. Chi accetta realisticamente una trasformazione che è regresso e degradazione, vuol dire che non ama chi subisce tale regresso e tale degradazione, cioè gli uomini in carne ed ossa che lo circondano.» È un insegnamento, è l’aforisma del maestro, la definizione di un limite. Ed è ancora una volta un “sentimento”. Di questo sentimento è anche il “sapere” che ci sono quanti non vogliono sapere o dicono di non sapere o fingono di non sapere. È questa la “colpa” che Pasolini attribuisce allora ai democristiani delle stragi e ora a chiunque sia al potere e non vede, perché fa finta di non vedere o vede solo da una parte e finge ancora, perché la finzione è il velo che nasconde la colpa del potere.

La colpa non è però solo del potere che finge di non sapere, perché è colpa anche il non fare sapere. «Il primo dovere degli intellettuali, oggi, sarebbe quello di insegnare alla gente a non ascoltare le mostruosità linguistiche dei potenti democristiani (dei politici dei partiti, oggi diremmo), a urlare, a ogni parola, di ribrezzo e di condanna … rintuzzare tutte le menzogne che attraverso la stampa e soprattutto la televisione inondano e soffocano quel corpo del resto inerte che è l’Italia.»

Bisognerebbe parlare napoletano con Gennariello, parlare nella lingua madre di ognuno e non quella dei potenti, del potere. L’Italiano è tale, ma è anche una lingua letteraria, la sua nascita è letteraria. Bisogna allora parlare la lingua della letteratura, non quella del governo dei potenti. È un’altra lingua, non tecnicistica, non farmaceutica ma dialogica, che fa capire senza nascondere in espressioni incomprensibili quello che non si vuole far comprendere.

V.

Ecco che a parlare sono le cose che circondano. È questo adesso il passaggio pedagogico che dà misura dell’opera d’insegnamento. Le cose intorno ci parlano. Diremmo l’ambiente, ma nel modo in cui intendiamo tutto quanto è intorno a noi e dentro, accanto e insieme siamo. «Il loro linguaggio è inarticolato e assolutamente rigido: dunque inarticolato e rigido è lo spirito del tuo apprendimento e delle opinioni non verbali che in te, attraverso quell’apprendimento, si sono formate. Su questo siamo due estranei, che nulla può avvicinare.» È il punto di volta di questo trattato di pedagogia. Le cose parlano attraverso noi che le parliamo e le parole che c’insegnano ci segnano, diventiamo noi stessi le cose che ci circondano, siamo come loro messaggeri, siamo come loro vassoio. Ovunque andiamo ce le portiamo addosso, dentro. La nostra estraneità è nel portarci appresso le cose che circondano, così il napoletano si porterà quell’incomprensibile parlare del caffe e della macchinetta napoletana a uno che ci ascolterà estraniato, basito, lasciandoci stranieri al parlare le cose che lo hanno circondato ed educato ad essere com’è.

«Siamo due estranei: lo dicono le tazze da tè». E qui Pasolini non poteva scrivere nulla di più estraneo al suo Gennariello che di tazze da tè non ne avrà mai avute in casa e che conosce solo quelle da caffè, viste e vissute in casa o al bar quando faceva servizio per portare “qualcosa di soldi” a casa. Non “i soldi”, ma “qualcosa di soldi” come ripete il napoletano, perché quello che si guadagna a fare servizio al bar è qualcosa dei soldi, ma non sono soldi, perché sono pochi per essere soldi, sono ridotti. Poco, qualcosa, appunto. «Quindi, nell’ambito del linguaggio delle cose, è un vero abisso che ci divide.»

Sono dunque le cose che ci dividono e cambiano, le cose ci separano e segnano il tempo del mondo. Non cambia il linguaggio. Cambiano “le cose stesse”, quelle che diciamo che sono. Sono le cose che cambiano il mondo. Sono le cose che ci cambiano. Mutano il nostro modo di vedere, la nostra stessa immaginazione. Così Pasolini scrive di come l’immagine delle tazzine da tè gli era venuta dal suo scenografo che gli aveva presentato per il film Salò o le 120 giornate di Sodoma. Erano tazzine degli anni ’30 ’40, che perciò gli portavano l’angoscia di quel tempo. Tuttavia c’era qualcosa in quelle tazzine che ne riportava anche la gioia, ed era il loro disegno, la grazia della lavorazione: quelle tazzine parlavano delle mani di chi le aveva fabbricate, le mani degli artigiani. Ecco le cose un tempo parlavano delle mani, di chi le costruiva, raccontavano degli uomini, degli artigiani dicevano del mondo e del suo racconto, di quel che si vedeva tutt’intorno.

«La verità che dobbiamo dirci è questa: la nuova produzione delle cose, cioè il cambiamento delle cose da me a te un insegnamento originario e profondo che io non posso comprendere (anche perché non voglio comprendere). E ciò implica una estraneità tra noi due che non è solo quella che per secoli e millenni ha diviso padri dai figli.»

Le cose dunque ci separano. I rapporti tra generazioni, le separazioni di generazione sono fatte dalle cose che consumiamo. Qui la critica del consumismo non riferisce alle cose, ma al modo di produzione e di consumo. La separazione non importa più quella tra generazioni, perché è delle cose. Siamo noi stessi, personalmente, nel ciclo di produzione delle cose. Ci consumiamo. Così cambia anche il linguaggio e un’espressione come “risorse umane” indica esattamente lo stato di riduzione a “cose”.  Anche la precarietà e l’azione a termine indica piuttosto il consumo. Siamo a tempo di consumo. Consumati noi stessi.

VI.

«La rivoluzione ha la pigrizia del sole che splende sui prati spelacchiati, sulle baracche, sui palazzoni scrostati.» La rivoluzione non cambia il tempo, lo congiunge. Non lo spezza in passato presente futuro, lo rigira, lo conserva tutt’insieme. Questo il messaggio che viene dal 1. Maggio di questa lezione. Bisogna immaginare quel giorno in cui fu scritto. Un giorno di manifestazione. Quando si affaccia l’idea di un “futuro”, quando ancora ripetiamo come in questi anni che non c’è futuro, che le giovani generazioni sono senza futuro, ancora non intendiamo come il il corso del tempo sia cambiato, la sua misura, il tempo in date, il farsi storia è cambiato, il racconto è come interrotto, spezzato, fatto a tratti, inconseguente, senza un seguito, senza futuro, come un presente sospeso per sempre. Il tempo si è consumato, la sua forma è il consumo. È immediato. Il tempo non passa più, si consuma. Ci consumiamo noi stessi al momento, a tempo determinato, anche i nostri legami sono tali. «Il futuro è imminente e apocalittico.» È percepito per un verso come assente e per un altro verso del tutto differente da com’è adesso il presente che viviamo. Una strana visione del futuro, che toglie di mezzo la rivoluzione e la conservazione così come toglie di mezzo l’essere di sinistra o di destra. Nel momento in cui parliamo di futuro stiamo nominando quello che non c’è e non può essere, stiamo semplicemente immaginando che non si immaginare, non c’è.

Quello che manca non è il futuro, manca il racconto del presente. Questo presente non è raccontabile, le cose e i giorni non sono raccontabili. Il futuro è questa strana parola che si compone di un passato remoto, “fu”, è di una desinenza verbale iterativa, in corso. “Futuro” è ciò che racconteremo come passato del presente adesso. Se non c’è futuro è perché questo presente non è raccontabile, ha perduto il suo passato, ha perduto il tempo che trascorre come il sole pigro sulle strade delle periferie.

Pasolini lascia comprendere queste cose, lasciando anche intendere come “sapere” è comprendere e se non comprendiamo è perché non vogliamo sapere. Pasolini lascia intendere questo scarto che si è aperto tra sapere e comprendere. Non sappiamo e non vogliamo “farci prendere”, non comprendiamo, non lo vogliamo nemmeno sapere. Pasolini lascia intendere che il sapere si partecipa, coinvolge, si avverte dentro.

La sua lezione guarda alle periferie e al centro delle città. Fa capire come la campagna ha perduto il suo racconto, il suo passato, quello che ci si passa nel viverla. Le stesse periferie hanno perduto quel senso di riscatto, di costruzione, di rivoluzione che le faceva rivolgere al proprio racconto. I figli sono strappati alla somiglianza coi padri e proiettati verso un domani che pur conservando i problemi e la miseria di oggi, non può esserne qualitativamente del tutto diverso». È il punto di volta più difficile da comprendere per Gennariello. La somiglianza. Si è perduta la somiglianza. Si è perduto la trasmissione nei corpi dell’anima, la generazione. La trasmigrazione dei corpi nell’anima. La trasmigrazione di una vita nella vita. I migranti possono insegnare adesso una trasmigrazione nuova di una vita nella vita. Senza passato, senza futuro. Il compito che ci impegna è la costruzione del presente, quello di un tempo comune. Ci aspetta forse una nuova immagine del tempo, perciò una nuova immaginazione, ci aspetta di immaginare la realtà come mai abbiamo immaginato di vedere.

VII.

Consumismo e comunismo, Bologna ne è stata l’espressione, in quegli anni ’70. Era una speranza e fu una disperazione per Pasolini che l’aveva abitata e vissuta col sentimento di un tempo perduto senza una ricerca che potesse farlo ritornare. Pasolini fa parlare Bologna due volte, a Gennariello e lui stesso. Dice cose diverse. Gennariello penserà di emigrarvi, Pasolini di non più ritornarvi. Ed ecco di nuovo il tempo, quello che non ritorna, il tempo di quando non vogliamo più ritornare dove siamo stati perché è cambiato nelle cose e nelle parole che le esprimono. In parallelo corre però un altro tempo, quello del futuro per chi quel luogo non lo ha vissuto. Sono adesso allo specchio Pasolini e Gennariello, sono nella stessa relazione di un docente a scuola e i suoi studenti. Non si capiscono, perché uno ha perduto il passato e l’altro non ha futuro. Non sanno l’uno e gli altri che possono cambiare il mondo e se stessi se solo ritrovano il presente nella somiglianza del tempo, perché il tempo non cambia se non si somiglia, giocando al riflesso di un’immagine nell’altra di un’immaginazione diversa, altra. Un gioco di specchi interiori, gli specchi opachi della somiglianza, perciò dei corpi, se solo sono sottratti dall’essere “risorse umane” e “prodotti di formazione”, “informatizzati, formattati.

Pasolini su questo è stato recalcitrante. Non ha forse colto la forza della sua diversità, non si è messo in accordo, non ha voluto essere d’accordo, sarebbe stato un buon inizio. Noi non abbiamo accettato allora e non accettiamo ora quel che segue del suo disaccordo coi giovani di allora che sarebbe come per i giovani di adesso. Giovani non più giovani si può anche affermare, perché l’età non indica più un tempo dell’età. Le generazioni si sono scambiate, sbiadite, confuse. L’età è diventata anch’essa precaria e migrante. Il consumismo e il comunismo si sono perduti in un solo vortice. I corpi si consumano, il lavoro non si fa, si è strumenti di lavoro, non ci sono più strumenti di lavoro. Il corpo proprio è diventato strumento che si utilizza, si prende e si lascia come cosa, appoggiandola da qualche parte e dimenticando dove sia stato.

VIII

Quello che i ragazzi insegnano ai ragazzi in un conformismo di età è la «novità», questa estranea giovani da adulti e questa crea il conformismo orizzontale tra i più giovani. Gennariello ha quindici anni, quelli della “persuasione della novità”.

Chi insegna racconta i propri insegnamenti, li rappresenta. Alla fine ci si accorge che gli effetti poi non cambiano. Si afferma in un modo o in un altro quell’autorità che rende conformi. C’è una implicita equivalenza, che Pasolini, lascia emergere tra fascismo e conformismo, perché l’uno è l’altro sono il piegarsi all’obbedienza di quel che si fa e si dice, meglio, di quel che si deve fare e si deve dire. Come sottrarsi allora al conformismo e al consumismo? Come poter essere non conforme e non consumarsi. Il consumismo è espressione di un tempo che si perde su se stesso, non resta. Il conformismo è di un’identità che non è la propria. Come allora contrastare il senza il proprio tempo e il senza della propria identità? Ogni trattato pedagogico comincia e finisce su questo punto, come essere se stessi e come restare.

Si può affermare che una tale pedagogia non esiste, la formattazione nelle scuole e nelle aziende è tale che si svolge su consenso informato, come la democrazia e ogni relazione farmaceutica che riguarda diritti e prelievi.

IX

Ci sono di quelli “obbedienti” e ci sono i «disobbedienti, cioè i pochi estremisti sopravvissuti, i disadattati, i devianti e infine — questi rarissimi — i “colti”». Le varianti fondamentali di questi tipi sono i ragazzi borghesi e quelli operai, i ragazzi del Nord e quelli del Sud. Quest’ultima variante sorprende. Emergono tuttavia in questo elenco i “nuovi soggetti” sociali, quelli che sono tali anche per Foucault, là dove si danno elementi, soggetti, forme di vita espulse e tenute fuori della società dell’ordine del discorso conforme, fuori perciò dall’ordine del consenso informato.

C’è un passaggio difficile andare tra “obbedienti” e “disobbedienti”. Non si comprende. Si resta recalcitranti a capire. Pasolini fa di questi passaggi, s’insinua nelle parti più oscure del pensare. I primi, i conformisti obbedienti, sono quelli «destinati a esser morti». Sono i «sopravvissuti», gli «in più». È un’indicazione questa che mostra come l’ordine del discorso giuridico sociale sia segnato dalla “conta” economica. Il surplus di umanità, l’eccedenza, sono gli “esuberi”, quelli che non rientrano nei numeri dell’ordine economico. È la stessa distribuzione numerica dei migranti. Gli “in più” sono anche i figli non desiderati dai genitori, i non amati, i superflui, quelli di cui non c’era e non c’è bisogno. I non amati. Quelli che arrivano senza benedizione, i non benedetti, perché il loro arrivo non produce beni in termini di ricchezza e consumo. Sono i tenuti in vita con mezzi artificiali, i destinati morti, i sopravvissuti. Un esubero di vita che va tagliata come l’erba e che fuoriesce dall’ordine.

Non manca tra le righe, in parentesi, il richiamo alle prime pagine del libro di Ivan Illich, La Convivialità, tradotto appena l’anno prima, 1974, in italiano. Anche in quel testo si parla dell’effetto del progresso della scienza e della tecnologia e di uno scarto tra ricchezza e povertà che segna il passaggio dell’economia dai politici ai finanziari, ai petrolieri allora. La Convivilità era nel libro di Illich l’espressione di un’economia corrispondente ad una forma sociale della comunità, come potremmo intendere quella in cui gli individui si fanno possessori degli strumenti di produzione di beni in comune. Le tesi di quel libro sono quelle che si ritrovano nell’espressione di questi anni della decrescita. Pasolini leggeva in quel libro l’avanzare di un “progresso” dallo “sviluppo” pericoloso giusto in termini di una “crescita” che favoriva l’accumulo della ricchezza in poche mani, quelle del “Petrolio”, a discapito di un aumento della popolazione in “esubero”, in “di più” rispetto alle esigenze del sistema di produzione capitalistica. Le analisi di Pasolini potevano trovare riferimento in quelle più remote di Ricardo, non certo marxiane. Guardavano agli effetti dello stato di cose esistenti piuttosto che alle cause contro un modello economico che, ancora oggi, intende lo sviluppo e la crescita in termini di consumo e non di qualità della vita. Le stesse esigenze di Diritto, quella che mi piace chiamare la “farmacia dei diritti” è riferita all’economia dei consumi. Si parla di diritti di consumo per le merci che obbediscono a dei requisiti “biologici” e di “lavorazione”, che segnano piuttosto i confini, la territorializzazione, del mercato della globalizzazione. Sono gli stessi confini annunciati con l’allarme delle pandemie e del ritiro dal mercato di merci non “legittimate” o “pericolose”, come di carni provenienti da certi paesi invece che da altri. Tutto questo in nome del “consumo” che piega la politica, i politici, le scelte di governo ad un piano di mercato ristretto, definito, dal potere finanziario e perciò dagli scambi di borsa.

L’educazione che Pasolini espone a Gennariello è sociale, non riguarda l’istruzione e la formazione, si riferisce a come essere persona in una società di personaggi che si definiscono sul piano sociologico come “obbedienti” e “dissidenti”, “fascisti” e “consumisti”, “conformisti” e comunisti, secondo ruoli che appaiono ben precisi, ma che sono invece indistinguibili gli uni dagli altri, insistono sullo stesso piano. È stato anche questo che di Pasolini gli “extraparlamentari” di allora, diversamente dai “benpensanti” dei partiti politici non hanno voluto capire, perché non erano comprensibili ad una volontà di cambiamento che andava in una direzione politica del cambiamento dell’esistente. Pasolini non era tollerato perché non era intollerabile.

Al fondo c’era un’intima convergenza che è ancora più difficile indicare ed esprimere adesso.

X

Gennariello figura anch’egli tra “i di più”, tra i “destinati a morire”, tra i “sopravvissuti”, solo che è «adorabile». Bisogna intendere ora questo passaggio che nelle pagine del libro viene espressamente dichiarato «che ti descriverò in questa sezione della nostra “Pedagogia”» introducendo «un elenco incompleto (ma se sarà necessario, lo aggiorneremo in qualsiasi momento sembri opportuno.» Questo momento e questa necessità arriva fino a noi, ora. è un’esigenza, che reclama forse un nuovo elenco o nessuno, dal momento che cade in un “indistinguibilità” che diventa la cifra finale del conto e la difficolta di comprendere il racconto di Pasolini una prospettiva di forma sociale comune ovvero di una comunità sociale per la quale continuare a ingaggiare quella lotta di testimonianza che ereditiamo dall’ultimo libro incompiuto, Petrolio.

Quelle distinzioni di categorie che scivolano l’una sull’altra rendendosi indistinguibili perché cadono tutte insieme in quel “in più”, di esuberi e di eccessi, si semplificano in “bravi” e “cojoni”, gli uni che non servono a niente, e sono infelici e gli altri che si godono il consumismo della felicità a buon mercato. I “bravi” sono però anche i protervi e i padroni. La distinzione, che resta tale, è la cultura.«È il possesso culturale del mondo che dà felicità. Non lasciarti tentare dai campioni dell’infelicità, della mutria dei cretini, della società ignorante.» Si capisce da questo fine, la felicità, come il “trattato pedagogico” sia esplicitamente un’Etica. C’è come la rabbia del bene in ogni libro di Etica, che finisce sempre nella gioia come sentimento della felicità. I libri di Etica sono tutti dedicati ai figli, da Aristotele a Savater, da Cicerone a Paolo, che scrive le lettere di Etica al figlio o Epicuro che scrive ad un figlio adottivo, chi scrive ad un allievo, non a tutti, ma a quello che sente, come qui Pasolini sente Gennariello. In fondo Le lettere Luterane sono scritte da un “padre”, che si sente tale, per età di generazione, ma che è senza figlio perché figlio egli stesso “in più”, in “esubero” in conflitto col padre e con la società padrona e sessista. L’insistenza alla paternità di Pasolini, che attraversa le Lettere Luterane è una paternità dell’opera, perciò generazionale. È quella di un padre contro lo stesso conflitto generazionale che resta irrisolvibile fin quando ci sarà un futuro senza passato di mercato e consumo del tempo che lascia il presente come vuoto. Bisogna immaginare la realtà per poterla trasformare. Occorre ogni volta vedere quel che manca in quello che c’è perché quello che c’è sia veramente quello che è, dando a quel vero essere per cui si vive il valore e il senso della vita stessa. Credo sia questo poi l’effetto che viene dall’immaginare la realtà, del portarla al grado dell’immaginazione e perciò a livello della realtà interiore e perciò dell’utopia dell’intimità. La realtà che viene così all’interiorità è la vita com’è la vita, fuori dalla proprietà, impropria, un possesso senza proprietà, quella di cui siamo in possesso e che dobbiamo perciò risponderne nella restituzione, restituendo l’operare che la vive. La facilità del fare non è la felicità dell’operare. Dal mercato dei facilitatori solo l’arte, la cultura, l’operare ci può “salvare”, tenercene lontano. La felicità della cultura è difficile. E di felicitatori, non di facilitatore, c’è bisogno per essere felici. E sono i più difficili, quelli più difficili da seguire, ma sono di quelli, come Pasolini, che cercano l’etica fuori del moralismo, l’operare e non il fare.

XI

È difficile. Una questione anche estetica, che provoca il bello. L’arte cinematografica di Pasolini opera su questo versante. È contro il “farsi brutto” del bello, contro la moda che attribuisce ancora i più giovani di farsi brutti, di vestire brutto, di truccarsi, tatuarsi anche di brutto. Pasolini è proprio difficile.

«Tra i “destinati a esser morti” ci sono esseri adorabili per lo meno come te, così vistosamente destinato alla vita. Se ho polemizzato con particolare veemenza È Gennariello come lui lo immagina, per quanto sia del Sud e proprio perché del Sud, è difficile capire questo giro, ma è nel capovolgimento che ogni etica e ogni pedagogia della vita reclama al mondo così com’è, anche al Sud così com’è, anche al Nord, perché sono queste distinzioni a confondere l’indistinguibile. A confondere perciò quello che non si distingue nell’indistinzione del mercato. «Se ho polemizzato con particolare violenza contro gli insegnamenti che ti impartiscono i “destinatari a esser morti”, è perché ho preso questa categoria a simbolo della media: media che t’insegna, appunto, queste stesse cose, e senza quel tanto di disperato che le corregge, le giustifica, le rende umane.»

C’è quell’“adorabile” che fa salire all’immagine la realtà della vita che viene dalla sua immaginazione. E la vita è adorabile. È questa che solleva l’indistinguibile al grado etico, non la vita com’è, ma come viene la vita all’intimità del mondo interiore.

Pasolini si dichiara fuori e contro ogni classificazione, ogni stereotipo fedele alla copia della realtà di mercato del consumo. Resta un individuo, letteralmente “en dia duoin”, come apprendevamo a scuola, “uno attraverso due”, uno che è attraverso due e non è né l’uno né l’altro. Come diceva Nietzsche in Ecce Homo, avvertendo chi leggeva a non prenderlo per un altro. Né questo né quello allora. Individuo, ecce homo. Nessuno. Nessun altro. Uno che vive. Una vita nella vita. Proprio e improprio come si è a vivere. Un possesso senza proprietà. Un possidente non un proprietario. Un posseduto senza padrone.

Chi è Pasolini adesso, chi lo incontra per strada adesso, come sentirebbe rimbalzare sui muri, su altri corpi la sua voce, con “quel tanto di disperato che la corregge” nel misto del suo dolce friulano del suo italiano letterario? Come suona in altre voci, in napoletano, in Gennariello adesso che è arrivato fino a noi, qui, che lo leggiamo?

È certo strano quel suo chiamare indistinguibile il gesto del conformista e quello dell’antagonista del momento, quel suo dichiarare l’extraparlamentare indistinguibile da ogni altro “in più” destinato alla morte, al taglio degli esuberi, alla mancanza di futuro.

«Dunque: indegnità, disprezzo per i cittadini, manipolazione di denaro pubblico, intrallazzo con i petrolieri, con gli industriali, con i banchieri, connivenza con la mafia, alto tradimento in favore di una nazione straniera, collaborazione con la Cia, uso illecito di enti come il Sid, responsabilità nelle stragi … distruzione paesaggistica e urbanistica dell’Italia, responsabilità della degradazione antropologica degli italiani (responsabilità questa aggravata dalla totale inconsapevolezza), responsabilità della condizione, come si usa dire, paurosa, delle scuole, degli ospedali e di ogni opera pubblica primaria, responsabilità dell’abbandono “selvaggio” delle campagne, responsabilità dell’esplosione “selvaggia” della cultura di massa e dei massmedia, responsabilità della stupidità delittuosa della televisione, responsabilità del decadimento della Chiesa, e infine, oltre a tutto il resto, magari anche distribuzione borbonica di cariche pubbliche ad adulatori.»

XII.

Irrappresentabilità della politica o manifesto dell’antipolitica. Chi legge Pasolini si trova a fare i conti con gli “indignati” e con gli “antipolitici”. Il suo è un nichilismo attivo. «… ci appare / tra le macerie finito il profondo / e ingenuo sforzo di rifare la vita». Sono i versi del primo canto de Le ceneri di Gramsci. Finisce così ogni profondo e ingenuo sforzo di rifare la vita? Ed è profondo e ingenuo? Ogni ingenuità è profonda. Ingenuamente ci si sforza a rifare la vita. Perché la vita reclama questa profonda ingenuità, perché la vita è ingenua e profonda. Bisogna farsi profondi e ingenui per rifare la vita. Ed è questa profondità e ingenuità che può rifare ogni volta insieme, in molti, in polis, in politica la vita. In comune.

Al fondo di ogni volta di Pasolini, a voler pronunciare il suo nome così in tono di voce, c’è questa profonda ingenuità di rifare la vita. Lo si sente per strada, nelle occupazioni degli spazi lasciati in abbandono dell’economia industriale, luoghi ridotti a ruderi di un tempo non merita certo archeologia. Lo si sente nella indistinguibilità che Pasolini ripeterebbe ad ogni voce che si appella all’antipolitica o alla politica. Bisogna comprendere questa indistinguibilità che rende ingenua ogni profondità di vita, perché è facile, perché facilita, perché sconforta, perché non felice né gioiosa. La politica non può mancare il compito dell’educazione ai sentimenti. La politica è chiamata ogni volta a immaginare la realtà, a farsi intimità. Vicina. Ancora adesso che siamo in una democrazia a consenso informato, non partecipata. Ora che siamo alla formattizzazione, alla relazione informata e informale. L’educazione è ai sentimenti che chiama la politica. Ogni sentimento è un legame, non ogni legame è però un sentimento. Quello della politica è un sentimento, quello che nella sua Metafisica dei costumi il filosofo chiamò il doppio principio, indistinguibile perché, questa volta, inseparabile tra “la realizzazione di sé e la felicità degli altri”. Una strana inseparabilità, che dice come la realizzazione di sé che non rende felici gli altri, sia solo egoismo e proprietà, quella realizzazione di sé che rende felice anche gli altri è tale perché in comune. È farsi comune, rendere comune ciò che si opera in politica come in arte, in ogni gesto e azione, che sia opera in quanto è partecipata in comune. Si tratta allora di rendere comune la propria vita. Fare della propria vita un’opera. A noi di Pasolini resta che è comune. Ci accomuna nell’indistinguibilità di quel che leggiamo del suo essere diventato per noi Pasolini, il nome di un sentimento quello della profonda ingenuità di rifare la vita.

Potrebbe ripeterci che non è né questo né quello, e che non si lascia distinguere se sia di una posizione di partito o di un altro. Senza partito. Dovremmo immaginarla forse così la realtà per una politica senza politica, per un partito senza partito.

Rifarla la vita di può, forse, ingenuamente fuori dal clamore gridato dell’antipolitica e lontano dal silenzio assordante dei politici che nascondono nel chiasso delle puntate dei salotti televisivi e dei tele giornali e dei carta giornali di copertura. Quando la politica ritrova la sua profonda ingenuità scrivere di nuove lettere come quelle di Gramsci ucciso dal carcere o quelle di Pasolini assassinato in un campo di reclusione urbana.

L’ingenuità più profonda è quella di fare della propria vita ciò che non ti appartiene, ma è comune, non una vita comune, ma in comune. Essere una vita nella vita. Non c’è nulla di meno profondo e meno ingenuo di una vita comune, qualunque. Diventa ingenua e profonda quella vita che fa del comune la vita che appartiene a ognuno. Il comune allora non è della rinuncia, ma del rifiuto di quel che è banale come il male. Vale per il nome Pasolini lo stesso suono di un altro nome, quello di Camus come di altri ancora che hanno ci hanno lasciato l’impegno di un rifiuto senza rinuncia della vita. Di un rifiuto dell’esistente senza rinunciare a ciò che il reale ci fa immaginare come educazione ai sentimenti del mondo in comune. Come la vita è adorabile. Come chi s’incontra con meraviglia e si ama.

Pasolini oggi ci manca. Quel che resta è la sua mancanza. Non altro. La sua opera ci manca. La sua diversità. Pasolini era come chi è diverso anche da se stesso, intollerabile, inaccettabile, uno che si scosta di un passo di lato. Quello fermo al passaggio del corteo, appoggiato al muro, come lo ricorda Erri de Luca nella sua intervista. Come lo ricordiamo tutti di quegli anni. Di lato e a fianco. Questa è l’immagine che ancora adesso può dire della sua presenza come di una mancanza. Non è avvicinabile a chiunque oggi faccia il radicale a ogni costo, Pasolini non gridava. Dentro sì, certo, non sappiamo dentro di sé quante grida rimescolava, però le scriveva, le filmava, ne faceva gesta e azioni, la sua è stata un’arte difficile della vita, ha fatto della sua vita un’opera d’arte. Ed è come quell’opera che non c’è e che si ricorda, come in questi giorni e in ogni altro che ci ricorda l’arte di vivere, della nostra gestazione d’esistenza. Il suo è uno scandaloso invito a esistere. Il mondo non cambia a poco a poco, cambia a uno a uno.

————

* Lettere Luterane è il titolo assegnato dalla casa editrice Einaudi alla raccolta di articoli che Pasolini pubblicava sul Corriere della sera. Furono il seguito della raccolta degli Scritti corsari. La prima parte delle Lettere Luterane riporta il trattato pedagogico che Pasolini indirizza a Gennariello, immaginario giovane napoletano. Il trattato non fu portato a termine. Era l’anno 1975 l’ultimo della vita di Pasolini che moriva il 2 novembre. Fu quello un anno di passaggio, segnato come “anni di piombo”, espressione che fa perdere tutta l’inquietudine e la bellezza che ogni anno porta con sé. Quello fu l’anno della fine della guerra in Vietnam, fu l’anno delle BR, della Legge reale???, del compromesso storico, delle aggressioni, delle manifestazioni, del sequestro di un magistrato, anni che abbiamo vissuto in manifestazioni e in assemblee continue per lunghi dieci anni che se non sconvolsero il mondo già da sempre sconvolto, ha fatto da piazza d’incontro di tanti, tantissimi, miti e non. Passavo dai libri ai quartieri, dalle letture ai dopo scuola, alle assemblee e occupazioni di piccole fabbriche. Furono gli anni delle autonomie, gli anni extraparlamentari. Pasolini poteva affermare che c’era un dentro del Palazzo e un fuori del Potere a marcare uno svuotamento istituzionale arrivato fino ai nostri giorni. Erano gli anni di una scuola che non c’è più, di una comunità di giovani che si conoscevano lungo tutto il Paese e l’Europa, tutti conoscevamo tutti perché non c’era bisogno di presentazioni e riconoscimenti, eravamo ognuno riconoscente all’altro della gioia di vivere. Era l’anno del femminismo, delle danze per strade, della comunità vagante, dove ci comprendevamo tutti anche da opposte ideologie perché sapevamo che erano la scorza di una sola passione che aveva bisogno di tradursi in sentimento, in un’educazione sentimentale per una comunità sociale di una società comune.

 gf

banner notte filosofi

L’innocenza di Genny

Settembre 9, 2015 Posted by Approfondimenti 0 thoughts on “L’innocenza di Genny”

Lo so, perché c’ero. Genny non doveva essere lui a morire, a 17 anni siamo tutti innocenti. Non doveva essere lui. La polizia dice invece che era lui il bersaglio. È vero anche questo. Le verità sono due. Segnano il confine di una parte. La città è divisa. Ed è questo il suo confine, una doppia verità. E quando le verità sono due, sono false l’una per l’altra. Ripenso alla mamma del ragazzo del quartiere San Ferdinando, aveva cercato di salire su questa divisione di confine, voleva parlare con qualcuno prima che accadesse e ora che è accaduto che suo figlio è stato ucciso, lo vorrebbe ancora. Intervenne il Papa, ricordo. I confini della città confini di voci. Una città arriva fin dove la voce ha parola, quando si spegne in un grido o resta attonita, quando si esprime a colpi di pistola, la città è finita, è questo il suo confine. Da una parte ci sono le ragioni senza diritti, dall’altra i diritti senza ragione. Quando ci sono due verità non ci capisce, non ci si parla. Genny sta in mezzo, la linea di confine è il corpo inerme, offeso, ucciso, vita violata. Tutt’in giro si alza il polverone d’opinione. Bisogna mandare l’esercito, avere più poliziotti. La colpa è della scuola, troppa evasione scolastica. La causa è la disoccupazione, non c’è lavoro. Il Sud è abbandonato, e a seguire tutto il resto, con la temporanea appendice sul giornale della notizia a caldo e la voce degli “esperti”. Ci sono quelli che sanno tutto, nomi e cognomi e abitazioni. Nessuno bussa a quelle porte, bisognerebbe andarci in corteo, con alla testa quelli che sanno tutto. Arriva puntuale il denominatore comune “la colpa è della scuola” e del sindaco, quello di turno ovviamente, perché quello che verrà sarà sempre il migliore fino a quando non verrà. Basta. I confini della città sono confini di voci, fin quando la voce ha parola e si esprime, non c’è pericolo. È quando hai davanti chi non si sa esprimere e non sa parlare che si alza il pericolo. Dove c’è parola c’è mondo, ripetono i filosofi. La colpa è della scuola se resta chiusa, la colpa è della città se non diventa essa stessa scuola. La colpa è nostra. L’intera città deve farsi scuola, per le strade, nelle piazze, nelle case, nei rioni, nei quartieri. All’evasione scolastica, bisogna rispondere con l’invasione scolastica della città. Del resto ricordiamo tutti, a ogni buona occasione, la frase di Pericle e del suo orgoglio di aver fatto dalla propria città una scuola. Una città che si fa scuola non ripete abilità, le competenze, non fa formazione e intrattenimento, racconta, incontra, legge, scrive, educa ai sentimenti, fa vicinanza, ti chiede di quello che sai e non di quello che non sai ripetere a memoria. Ti chiede di te. Ti dice della relazione che sta dietro ogni regola. Una scuola fuori della scuola, una città che si fa scuola è quella in cui s’impara a leggersi dentro, impari a parlare, a stare insieme, a spiegare le ragioni e trovare le soluzioni, a ricercare e inventare nuovi percorsi in comune, a raccontare la città, la riconoscerla, ad attraversarne la storia nelle strade, a ritrovarne l’orgoglio, l’appartenenza, l’esserci e contarvici, raccontandosi. Invece no, anche nei romanzi d’autore questa città è poliziesca e “commissariata”, demonizzata. Si racconta dei boss, quasi a marcare gesta di eroismo rovesciato. Sì, Genny era innocente perché tutti siamo colpevoli, anche quelli che gridano la sua innocenza, perché sono vittime di un sistema di bande territoriali di cui non si sa di essere invischiati, tenuti a tacere con il grido in gola. Finanche i “coinvolti” non sanno come e perché. Ci si trovano, non sanno di finire a bersaglio e vanno loro stessi a colpire terrorizzando tutt’intorno. Non c’è niente di più terribile del silenzio dopo gli spari. Poi li ritrovi dentro, in carcere, quando la fanno grossa. Massimo, Secondigliano, giovane, forte, ti siede accanto a chiederti come deve fare adesso che la sua vita ha davanti il buio. Dovete conoscere i miei figli, parlare con loro, sono ragazzini ancora, ti dice il “casalese” che vuole essere, ed è, cittadino di Casale Principe contrariato da quel nome di disappartenza, che lo ha reso clandestino di se stesso. Ed ecco puntuali i racconti dei traffici, le quote, i nomi, il riassetto del territorio da Scampia al Centro, al rione Traiano, a Forcella. Cavolo, sappiamo tutto e tutto resta nel silenzio degli spari. La gente che dice che Genny è innocente ha ragione e vuole il diritto di esprimerlo, dicendo della propria innocenza, di quella dei quartieri in preda alla doppia occupazione del silenzio delle persone che vogliono stare bene, serene, vivendo la propria comunità, i propri riti simbolici di rioni e culture proprie, mentre si sentono ostaggio di un’economia e di una cultura estranea e della vessazione impropria di chi abitando quei luoghi li comanda con violenza a tacere. C’è stata una bella esperienza in Regione, prima che la giunta successiva la negasse, fu “Scuole Aperte”, fu una prova importante. Allora si disse che le scuole fossero diventate dei centri sociali. Era così. Bisogna provare adesso a portare la scuola fuori la scuola, perché la Città si faccia scuola. Sarà come l’invasione scolastica della Città.

Capire e non comprendere

Agosto 24, 2015 Posted by Approfondimenti 0 thoughts on “Capire e non comprendere”

Arrivo in ritardo a prendere parola sulla scena del funerale romano. Ancora una scena, ancora una fiction che si confonde alla realtà ovvero ancora la realtà che è più di una finzione. Il rischio è che tutto quanto si dice di orrore e di scalpore rischia di far parte della stessa finzione. Allora sfido l’equivoco. Rifiuto lo schema dei ben pensanti e dei protestatari dall’animo incontaminato che puntano l’indice facendosi da parte sul sistema di sorveglianza e punizione delle istituzioni. Proteste senza prospettive. Come le tante che si spendono contro i politici senza alcun progetto politico. Sfido l’equivoco in cui mi vado a cacciare. Continuo. Vedere quel funerale ricorda altri tempi, quando si vedevano per le strade carri trinati da cavalli, secondo precise distinzioni di classe e di potere, adesso di protervia. Si vedevano cortei per le strade. Allora, la mia amica tedesca si diceva sorpresa che ancora si facessero funerali di quel tipo. Le spiegavo, sorpreso io della sua meraviglia, che erano un fatto culturale, popolare, ricordando l’importanza che si dava alla morte, l’ultima scena, l’accompagnamento, il seguire, le esequie. Oggi siamo più europei. La morte si nasconde. Il principio è quello che ricorda Foucault: “far vivere e lasciar morire”. La morte non importa. La morte fa comunità. Nelle “grandi città” nemmeno ci sono più i manifesti, in Puglia ne ho invece visti ancora di grandi come per una manifestazione pubblica. E ci rifletto. Mi caccio in un equivoco. Continuo. Capisco e non comprendo. Intendo, ma non mi appartengono.
Quando ce la pigliamo con i funerali romani non gridiamo al mafioso, non solo, ma gridiamo contro una cultura, contro un modo d’intendere la comunità, che lasciamo gestire a chi è mafioso, facendo la stessa confusione che magari scappa a dire ‘ndraghetisti i Calabresi, camorristi i Napoletani e mafiosi i Siciliani e tutti quanti gli Italiani. Quella manifestazione è una precisa territorializzazione di confini tra un mondo e un altro. Ed è questo confine che occorre “invadere” adesso.
Se posso uscire dall’equivoco voglio dire che non si può chiamare “mafiosa” anche quello che non è propriamente tale, ma che la mafia assume come proprio. Quel sentimento di appartenenza che lasciato ai margini, finisce nella deriva di legami di illegalità. L’espressione di una cultura di comunità, arretrata quanto si voglia, inattuale, remota, quanto si vuole, ma che è propria della cultura dell’Europa del Mediterraneo, lasciata ai margini e resa perciò “remota” e “inaccettabile”, senza che la si comprende in altre forme di legami di legalità. Sono gli estranei. Ed eccoli, con le stesse facce, le donne in testa e a seguire lo sfarzo dell’ostentazione. Lo stesso che avviene nelle feste popolari, gestite solo dai “mafiosi” perché è finita l’epoca dell’antropologia sociologica e l’attenzione istituzionale a modificare forme e espressione. Qui è sulla morte e i suoi riti che bisogna anche riflettere, perché la morte è politica e non si può mettere fuori scena, non si può gridare all’osceno senza lasciare intendere di quale scena stiamo parlando e soffrendo noi stessi quando gridiamo contro i vertici che “non sapevano” e “non potevano non sapere”, perché di fatto quel'”accordo” passa per tutte le catene intermedie della comunicazione dal vertice alla base e viceversa. Siamo allora tutti mafiosi. I “guasti” si annidano nei rapporti di vicinanza. Nessuno ne è fuori, perché c’è quella contiguità che permette anche delle fughe immaginarie di chi dice di “conoscere” chi non ha mai visto, da una parte all’altra, quasi che i politici siano su un tale confine di connivenza sempre pronta. La mafia come organizzazione criminale è una cosa loro, la mafia come humus culturale è cosa a nostro malgrado. È questa “cultura” di contiguità e connivenza che occorre abbattere, sconfiggere, invadere con legami di legalità.
Il punto è che la mafia non si combatte solo le carceri, che devono essere chiamati luoghi di giustizia e devono essere tali. Il carcere però, mi aiuta ancora Foucault, non si deve analizzare per le sue insufficienze funzionali, perché proprio dalla sue disfunzione si comprende l’ordine sociale e di governo della popolazione entro cui sono inserite. Lo ripeto ormai da tempo: il grado di sviluppo della democrazia di una paese si misura dallo stato delle scie carceri e delle sue scuole, quando le carceri saranno scuole e quando le scuole non saranno carceri allora la democrazia avrà raggiunto il suo punto più alto.
Voglio dire che la lotta alla mafia si fa con la cultura e non con le fiction che le fanno da colonna sonora, è una lotta di cultura. Riguarda l’ambiente, il paesaggio, il modo di vedere e sentire. Non sarà certo un caso che i momenti più incisivi di lotta contro le mafie sono stati quelli in difesa della vita, dei territori, che sono diventati i soggetti sociali sui quali intendere un progetto politico di governo di autonomie. Occorre invadere i confine, arrivare con la parola là dove la voce resta sola. La parola, il racconto, la vicinanza, non la narrazione, televisiva e non, di gesta che rendono mitici quanti offendono il valore di ogni mito di comunità. Entrare in quei luoghi chiusi, territorializzati, le periferie, parlare a quella mamma del quartiere di San Ferdinando che si è vista il figlio morto per strada e che ha invocato già prima che accadesse di parlare con qualcuno perché non avvenisse. Mi sorprendo ogni volta, quando una persona detenuta,  da ultimo un “casalese”, ancora giovane, mi dice “professo’ dovete conoscere mio figlio”.
Allora è la città che deve farsi scuola, dobbiamo portare il sapere, la cultura dove c’è una incrostazione confusa di non sapere che fa male e che dà la morte, mentre noi “lasciamo morire”. Loro danno la morte, mentre hanno cura della vita dei propri cari. Noi li lasciamo morire per farci la nostra vita. Da una parte è cultura tribale, dall’altra, dalla nostra, senza comunità. Lo vedo nei miei quartieri, quanti volti di giovani ammazzati diventano delle icone in mostra nelle bacheche di santi. La morte non vale niente. Per i mafiosi la vita degli altri non vale niente. Per noi la morte deve cominciare a prendere, a riprendere il significato di comunità. Allora sì, condanniamo quella scena, ma capiamo pure che abbiamo lasciato a quella scena una forma chiusa su se stessa di società. Dobbiamo capire senza comprendere e giustificare, intervenire, cambiare, invadere, fare sapere. Dobbiamo capire la morte, il suo valore simbolico di comunità, senza lasciarlo degenerare in forme di legami irriconoscibili e inaccettabili, non certo con carri di cavalli ed elicotteri, ma con un senso di comunità sociale e di società comune che deve trovare le sue forme di comunicazione di parola per non lasciare un tempo e un mondo senza restituzioni, per non lasciare alla finzione la realtà. La città deve farsi scuola. E non lasciare alla scuola, che “buona” non è, la responsabilità educativa che le manca perché manca alla Città. Dobbiamo arrivare in quei campi profughi che sono dalle nostre parti, nei quartieri delle periferie, nelle carceri dalle file di donne, vecchi e bambini nel giorno dei colloqui e sentirne le voci e parlare. I confini della città sono fatti di voci. Una città arriva fin dove la voce ha parola quando si spegne in un grido o resta attonita o non trova parola per spiegarsi e sentire, la città finisce, e noi siamo quella città, restiamo al centro, senza giungere e capire quei confini che non si comprende perché siano così. La nostra parte è la denuncia di un’economia bugiarda e di una illegalità diffusa. La nostra parte è di condanna. Poi arriva l’altra del capire senza comprendere, senza giustificare, ma per cambiare, per riportare, per restituire la città e il sapere a chi non lo ha avuto o lo ha perduto o mai saputo. Sono quelli che cadono dall’altra parte e vanno dietro ai funerali di famiglia allargata, scompaginare quell’esequie e dare seguito ad altro che sia eseguibile, senza esecuzioni sommarie. L’intimità della danza forse ci salverà, se la cultura non si chiude dentro i costi della Città, per ritrovare la comunità. Allora sarà scuola aperta.

Lettera a Walter su al di là e l’intimità

Agosto 22, 2015 Posted by Approfondimenti 0 thoughts on “Lettera a Walter su al di là e l’intimità”

Caro Walter, mi hai chiesto, ormai è più di due mesi, di scrivere cosa pensassi a riguardo di quel testo, bellissimo, sul “trapassare” che hai pubblicato sulla tua rivista. Non bisogna mai chiedere a qualcuno di scrivere delle cose che incontra di continuo nel suo studio. Difficile tenere in una pagina tutti i pensieri che arrivano a cercare spazi di linee nella scrittura. Così ti ho fatto attendere. Ci provo ora, seduto sulla panchina del paese, una di quelle messe in disparte all’angolo di Largo Tosti. Scrivo così, assorto e dominato da un solo pensiero: l’aldilà è nell’intimità.

Ciascuno di noi è fuori ed estraneo a tutti gli altri. Solo nell’intimità di chi l’ha caro, ciascuno è veramente se stesso. La morte ci ricompensa dell’ospitalità di chi ci vuole bene e ci mantiene nell’amore del suo ricordo. La morte educa alla comunità che è propria di ogni paese. La morte avvicina, riunisce. La comunità è intimità condivisa di una memoria esclusiva. Ci fa sentire insieme. Le confessioni religiose insegnano questo rito di passaggio dal visibile all’invisibile, dal certo al vero, come Gesù che ammonendo chi voleva convincersi della sua resurrezione toccandolo con mano, gli disse “noli me tangere”, “non mi toccare”, per sapere se sono io, perché non sono come un oggetto qualsiasi che hai davanti e del quale puoi verificare la certezza d’esistenza, io sono vero per come “ti tocca” dentro la mia presenza, come puoi sentirmi nel tuo animo. Tale rimane il suo insegnamento.

“Trapassare” si dice del passare dall’altra parte della vita, quella che non sappiamo. “Trapassato” si è anche dal desiderio, dal portarsi affetto, a volersi bene, amarsi. “Trapassato” è chi è attraversato da parte a parte nel corpo. Anche da un corpo a un altro. La somiglianza testimonia di questo segreto, perché la somiglianza è come il ricordo del proprio corpo in quello di un altro. Ogni vita nelle sue sembianze ricorda quella che l’ha preceduta e avuta. La somiglianza è come la rimembranza vivente del vissuto di altri, il suo desiderio e la sua nostalgia, due sentimenti che si toccano insieme, si sfiorano nel pensiero della mancanza, del perdersi e del ritrovarsi avvenire. La metempsicosi ripresa dai filosofi sa ancora del “trapassare”, lo traduce come passaggio dell’anima da un corpo a un altro. Si può dire ancora così della somiglianza che è quasi della metempsicosi è la traccia, ne è l’impronta. Socrate diceva che non è immortale la mia anima, ma l’anima che è in me. Quel giorno a casa di Menone raccontava come l’anima nostra nasce e muore molte volte, passando da un corpo a un altro. Fu da un tale principio che poté mostrare come anche chi non avesse fatto studi istruendosi di geometria, come lo schiavo di Menone, poteva ricavare la lezione di un teorema, purché fosse però “nato in Grecia e sapesse essere greco”, perché è di quel popolo la nascita della geometria come scienza. Era perciò un sapere diffuso, utilizzato comunemente. È come se in una comunità di pescatori non si conosce l’uso della rete. Socrate così lasciava intendere come non sia immortale l’anima individuale, ma quella che è in ognuno e rappresenta l’anima della comunità, quella del paese, come posso intendere l’anima di San Vito, abruzzese, che permette di riconoscersi nella somiglianza dell’intimità, per quante possano essere le differenze di uno a uno. L’anima dice dell’appartenenza.

Dove allora andiamo, morendo? Andiamo dove restiamo, nell’intimità della benevolenza di chi ci tiene nel suo ricordo, rimaniamo nella somiglianza di chi ci caro, nell’animo di chi ci vuole bene. Non sarà da chiedersi allora dove si va, trapassando, ma dove si resta morendo come parte di una familiarità del bene comune.

Platone racconta così di quel soldato che fu colpito a morte in guerra e trapassò, trovandosi nell’aldilà. Qualcosa però resisteva a tenerlo in vita. Si riprese. Poté allora raccontare di quel che aveva visto al di là, di come la propria anima si ritrovasse in un altro corpo a scelta della misura di quel che era stato prima in vita se giusto o ingiusto. Un sogno fu il suo racconto, come ogni volta è per noi un sogno il pensiero dell’aldilà, il sogno di un mondo migliore di quel che è di qua.

Windsor Adorno fu tra i sopravvissuti alla follia nazista del genocidio. In un suo libro racconta di un sogno da allora ricorrente, sognava di non essere lui a vivere, ma era egli stesso il desiderio di vita di quanti furono trapassati dallo sterminio nazista. Ognuno di noi è il sogno di chi è vissuto, ognuno è come il sogno di un’altra vita, che viene dall’aldilà, altra. La nostra vita è come il sogno del desiderio di una vita non vissuta ancora, di un mondo diverso da quello che c’è. Nell’affetto che ci lega nell’intimità della comunità è custodito il desiderio del bene comune. Trapassare, al di qua dell’esserci, è generare, tramandare, lasciare. È questo che pare mancarci adesso, la tradizione, il movimento reale che modifica l’esistente nella vocazione delle nostre terre. Questa mancanza rischia di farci perdere l’anima della comunità e l’intima utopia di un mondo vero.

La comunità è intimità condivisa, ci si riconosce. Anche la terra ha un’anima. I luoghi hanno la propria vocazione come parimenti chi li abita ha quel tono proprio della voce. L’anima non è dentro il corpo. L’anima è la parte interna del corpo. L’anima è la voce, vive nell’intima risonanza del proprio essere e abitare. Di voce ci si somiglia. I figli hanno la voce del padre. Quasi che sia la voce che trapassa da un corpo a un altro. La voce è come l’impronta genetica dell’anima. Non bisogna allora perdere, la voce e l’anima. Bisogna tenerle insieme, dare voce all’anima e anima alla voce, stare alla vocazione dei luoghi che abitiamo e diventare quel che si è, dando vita al mondo e mondo alla vita.

 

San Vito Chietino

Agosto 2014

C2008-31

Lo Stato senza Società

Luglio 10, 2015 Posted by Approfondimenti 0 thoughts on “Lo Stato senza Società”

Prendere parola sull’Europa – ora – non è facile, ma è necessario. Si deve a se stessi. Che sia la Grecia a rompere il cerchio della sudditanza appare come l’effetto di una nemesi divina, quasi sia ancora Zeus a ripudiare Europa che prima aveva sedotta, e violentata, nelle sembianze di un toro bianco, espressione di una provenienza di gente diversa senza il colore del sole. Fu l’inclinazione buona della cultura dal Mediterraneo verso le terre interne del continente. Europa significa “buona virata”, “buona sterzata”, “deviazione favorevole”. Il mito fa risalire l’origine anche al matrimonio per rapimento ovvero all’espressione propria della cultura popolare mediterranea della “fujtina”, della “scappatella”. Diciamo pure così, l’Europa ci è scappata dal Mediterraneo, “fujuta”, fuggita, emigrata anche, forse, data in sorte. Zeus in quel caso rappresentò il destino di quella svolta del mediterraneo verso il continente. (L’immagine della pubblicità dell’“estratto di carne” della “Liebig” lo ricorda benissimo) Un mito sofferto, poco frequentato e raccontato perché comunque di una deviazione si è trattata, per quanto accettata come i matrimoni riparatori di una volta. È sempre difficile mantenere buoni rapporti in questi casi. Il richiamo, che ne è venuto in seguito, alla cultura ellenica, come posta alla base dello sviluppo dell’Europa, suona ancora come racconto di un mito di cui liberarsi. L’Europa è la nostra Cultura, diciamolo meglio però. È la cultura del Mediterraneo adattata alla scienza moderna occidentale. Il conflitto tra Scienza e Cultura emerge a sussulti, costantemente, e pone a destino proprio dell’Europa la Crisi, non come momento, ma come appunto destino dell’Europa. È innanzitutto “crisi delle scienze” e delle idee, della politica e dell’economia ovvero di ogni azione e sapere calcolante. È la Krisis spiegata nelle pagine di Husserl, e che ritorna nelle forme del nichilismo, ma che è anche quella che ha permesso degli avanzamenti e dei ripensamenti dello sviluppo dei saperi e della politica. La “Crisi” è costante e dice dello scarto, inadeguabile, tra scienza e filosofia. Una tale inadeguatezza cela lo scarto di cultura nascosto dentro il tormentato divario tra Nord e Sud. Accade spesso di nascondere nella carta geografica quello che è una divergenza di cultura, che diventa evidente nella geopolitica dominante.

Le spiegazioni lasciano il tempo che trovano e fanno perdere quello da trovare. È piuttosto sulle decisioni che è necessario arrivare. Le divisioni non guastano, sono come doppie visioni, molteplici. Il problema è tenerle insieme senza aprire nuove frontiere, che ripetano Nord e Sud, Oriente e Occidente. “Condividere” è tenere insieme le divisioni. Ora si tratta di mettere insieme la cultura, non in forma di nostalgia del passato che fu, con un’economia che non sia quella finanziaria del presente. Per l’Europa “tenere” la Grecia è mantenere la cultura critica del ripensamento, per cui scienza e filosofia, scientismo e cultura, economia e stili di vita, etica e politica stiano insieme. Sul nome della Grecia è di questo che si discute, di Etica e Politica.

È questo il tempo in cui l’organizzazione del rapporto Stato e Società si è disciolto, l’Illuminismo ha chiuso per sempre i suoi battenti. L’Europa nasce come CEE e ora come UE per fronteggiare guerre e divisioni, frontiere e separazioni. Già Kant si augurava che si realizzasse come federazione di Stati Uniti, mentre imperversava la guerra. Con l’Illuminismo si aprì il corso del rapporto Stato e Società con la fine dell’assolutismo. Fu il tempo della nascita dell’economia politica, della scuola pubblica, dei servizi sanitari, della costruzione delle città. Ora siamo giunti alla fine di quel rapporto tra Stato e Società che ha conosciuto tentativi di soluzioni radicali come scioglimento della Società nello Stato tra socialismo e comunismo, finendo nella dissoluzione del liberismo dello Stato “alleggerito” della Società privatizzando le istituzioni. Tra Stato e Società si sono espresse le rappresentanze politiche di classi, indirizzi di idee sociali in conflitto di progresso. Tutto questo è finito, con la fine del rapporto Stato Società sono decadute anche le rappresentanze che ne facevano da mediazione. Siamo ora ad uno Stato senza Società.

Al proletariato si è sostituito il precariato diffuso. Se il proletariato aveva solo la prole a suo destino, il precariato non ha neanche più la propria esistenza come progetto di vita.

Lo Stato senza Società significa la riduzione progressiva dei servizi sociali e l’assunzione delle associazioni come sua sostituzione, dalle carceri agli ospedali, dai servizi pubblici alla scuola, sta nascendo una nuova prospettiva di organizzazione della vita che si dice “dal basso”, che più esplicitamente è da ognuno, dalle persone, dalla propria vita e perciò anche dai propri desideri, passioni e sogni, dalla gioia. La liberazione dei luoghi dismessi dalle funzioni di strutture di un’economia in disfacimento significa l’attivazione di nuove forme di economia e di cospirante ospitalità di persone e stili vita diversi. Al fondo cambia il rapporto tra valore d’uso e valore di scambio dell’economia politica, cambia il rapporto tra possesso e proprietà nella prospettiva di un possesso senza proprietà. Ai soggetti sociali, alle classi, si sostituiscono i territori, sono questi adesso i soggetti sociali, annunciati dalle lotte per l’ambiente, ma che significano di fatto nuovi soggetti sociali per i quali l’abitare e, perciò, l’etica e i legami sono da conquistare. Di tutto questo l’Europa dell’UE finge di non sapere niente. E quando un equilibrio non sa del suo movimento, comincia a vacillare e frantuma, a meno di non provare a ritrovare un altro passo su una nuova e antica strada ovvero dove la politica ritrova l’etica al suo passare.

Con il rifiuto del popolo greco a piegarsi al terrore dei “creditori” non ci si deve chiedere cosa succederà o quali conseguenze comporterà l’eventuale uscita o non uscita della Grecia dall’Europa per gli Stati che ne fanno parte con preoccupazione. La presa di posizione reclama una misura di confine assai precisa, e necessaria: la domanda è cosa vogliamo che sia l’Europa. Viene facile incitare a una Germaniaexit, ma sarebbe pensarla allo stesso modo di chi ragiona per inclusione/esclusione/reclusione. Fuori da questa logica è l’Europa dei territori, delle culture, è l’Europa del Mediterraneo. L’Europa non è non è una sola, dovrebbe essere questo il senso dell’Unione, non l’unità unica, l’Europa non è una moneta. L’Unione richiama sempre il plurale. Fin si è stati costretti a un euromarco insieme dissolvimento di ogni sociale ogni collegialità che sia la scuola o il lavoro, come le riforme “marcano”. Da tempo a scuola non si consegue il diploma di maturità, che indicava la formazione della persona alla società di cittadino, per passare al diploma delle competenze con gli studenti “prodotti” e “formattati” sulle esigenze di mercato del momento. È finita per sempre l’età dell’emancipazione ed della ragione, così come della coscienza di classe, in cambio c’è la farmacia dei diritti, per tenere buone le richieste del momento, e se i soggetti che li reclamano sono “portatoti d’interesse”.

Sono i corpi e le persone, sono i territori adesso i soggetti sociali. Adesso le classi sono i territori, del disagio e dell’agio, quelli esclusivi a fronte di quelli d’esclusione e d’abbandono. Il potere finanziario, che erode la sovranità dello Stato e dissolve la Società, prepara forme movimentate di potere che reclamano scelte, nuovi antagonismi. La vocazione dei territori è nelle voci di quelli che li abitano e li vivono. Questo l’Unione è chiamata a interpretare, la partecipazione delle voci.

GF

RAtto Europa

una piazza per sentimento

Giugno 25, 2015 Posted by Approfondimenti 0 thoughts on “una piazza per sentimento”

Il secolo dei lumi è stato anche quello della nascita della società. È stato il tempo dell’economia politica, dei primi progetti di scuola pubblica, dello sviluppo delle periferie e dei centri urbani, della riforma delle carceri, della scuola dei sentimenti. Di seguito c’è stato il secolo della storia, del progresso, dell’ideologia, dello stato etico, fino ad arrivare allo stato totalitario come primo tentativo di assorbire la società nello Stato facendo nel progetto del socialismo e della cancellazione dello Stato nel comunismo. Entrambi contrastati e fatti degenerare nella condizione attuale. Ora chiamiamo democrazia lo stato di diritto nel quale sperimentiamo il progressivo prosciugamento della società e la gestione privatistica dello Stato. L’Unione Europea cancella la sovranità degli stati locali, indebitati a uniformarsi sotto ricatto del fallimento e della povertà alle condizioni di incastrare tutti i servizi sociali nelle maglie della gestione privata. La parola d’ordine nascosta è privatizzare la società ed eliminare lo stato. L’effetto ideologico è l’informatizzazione e la riduzione della scuola a formattazione continua rispondente alle innovazioni. Si studia per farsi prodotto di mercato, vestendo l’innovazione. “Ingegnarsi” si diceva anche per intendere il vestito nuovo, ed è di un tale vestirsi che si dà la concorrenza sulle competenze. La produzione invade la generazione, scomponendo i generi, così come i prodotti sono di nuova o ultima generazione. La privatizzazione della società e la cancellazione della sovranità degli stati in nome di unità continentali in concorrenza tra di loro sul piano globale, provoca una maggiore precarietà di esistenza individuale. La democrazia è diventata espressione di una farmacia dei diritti, “prodotti” sulla base delle esigenze cliniche a fatturato crescente. Ci sono ragioni senza diritti, perché non danno ricchezza, e diritti senza ragione, perché sono privilegi. I farmaci si producono alimenetando epidemie, per malattie rare non c’è guadagno a produrli, non non se ne ha, e la felciità è una “malattia” rara. Il riconoscimento delle ragioni in diritti è sempre in relazioni alle ragioni di ricchezza. Cresce la solitudine, meglio l’isolamento. La democrazia, senza stato e a società privata, è sempre più gestita da associazioni. La scuola è privatizzata dall’alto, reclama una formattazione sempre più personalizzata e funzionale di settore. La persona è svuotata del tempo della sua esperienza e dei propri sentimenti. L’informatizzazione reclama una gestione sempre più individuale da parte di ogni singolo che perde sempre più stanza sociale per ridursi a sola porta girevole dello scambio d’identità e di persona, come prodotto tra gli altri. I sentimenti lasciano il posto a consulenze e terapie, per essere trattati come patologie. Così la noia è diventata depressione, la malinconia è ora un disturbo dell’umore, così come ogni altra espressione di sentimento. L’amore vissuto è a tempo determinato così come per ogni altro sentimento che ha bisogno di cura per guarire. La società privata diventa una clinica. Crescono i centri di benessere, manca la felicità, perché il benessere è delle condizioni, la felicità è delle relazioni. I sentimenti sono legami, sono fatti di tempo ed è il tempo e il legame che ci mancano. Sono cambiati. Siamo cambiati. È il momento questo di comprenderne gli effetti e capire quali sentimenti ci aspettano e ci spettano, ripensando a quello che è stato fin qui ed è ora il nostro amore, la nostra amicizia, il dolore e il dispiacere, il piacere e l’entusiasmo. Ogni passaggio che diventa storia nel tempo dell’Europa è segnato dalla riforma delle carceri e delle scuole come di ogni luogo di cura e di ospitalità. La storia dell’Europa si misura dalle forme dell’ospitalità e delle migrazioni delle genti. Stiamo vivendo tutto questo, riforma delle scuole, riforme di ospitalità e di detenzione, di campi d’inclusione, reclusione ed esclusione, in una forma d’urgenza perché giunta al punto di una trasformazione radicale delle relazioni, dei legami e dei sentimenti che ne conseguono. Sta cambiano l’economia. Sta cambiando la nostra stessa percezione d’esistenza e il rapporto con la vita. Il nostro modo di abitare. I sentimenti non sono patologie, non necessitano di una clinica, dicono quel che ci accade dentro di quel che avviene fuori e del mondo che vogliamo e sappiamo ancora per una società comune e una comunità sociale. Il programma di “Una piazza per sentimento” è un modo per mettere all’aperto il proprio sentire, di parteciparne, di ripensare il nostro stare insieme e abitarci. Partiamo da dove i sentimenti hanno fatto scuola. I sentimenti sono fatti di tempo. Cominciare dalla Critica del Giudizio, leggerla adesso, vale come tradurla, riportarla al linguaggio adesso corrente, tradurla perciò riportandola dove siamo ora e capirla, ospitarla in un altro tempo per capire quanto sia cambiato il suo e il nostro sentimento. GF

una piazza per sentimento

Lido Pola per un’economia senza proprietà

Giugno 14, 2015 Posted by Approfondimenti 0 thoughts on “Lido Pola per un’economia senza proprietà”

Ieri a Lido Pola, Luca, Domenico, Franceschina, Lorenzo, tutti. Lido Pola è un luogo di confine. Lo indicano i tratti divenuti simbolici da quelle parti, in fondo al molo si trova Nisida, l’isola che non c’è, perché sottratta alla città, sede di carcere di ragazze e ragazzi, appena prima di arrivarci, è la sede NATO, mentre, a monte, da un lato c’è la grotta di Seiano, la galleria che porta in un altro mondo di storie e ricchezze, dall’altro lato poi i resti dell’Italsider, un tempo Ilva e un tempo, ancora prima, Armstrong, ci ha lavorato anche mio nonno, per dire quanta città ci è passata prima ancora che costruissero la periferia operaia all’inglese del quartiere di Bagnoli. Dall’alto c’è il Parco Virgiliano, un altro mondo ancora, che non avrebbe mai immaginato quel che sarebbe accaduto là sotto. E là il mare, che “sta sempre là, tutte spuorco, chine ‘e munnezza ca nisciuno o po’ guarda’”. Lido Pola, un tempo c’era il ristorante, che affacciava sul pare pavimentato di barche ormeggiate una dietro l’altra, una vera distesa. C’erano anche i pescatori che resistevano a fare i “guardiani” di macchine e barche, insieme si contendevano il “tenore di vita”, si dice proprio così “tenore”, che indica anche un registro di voce di quelle voci che non ci sono più. L’aria adesso risuona di silenzi di giorno come di luoghi perduti e ritrovati. Di notte si scatena invece il fracasso di musiche da discoteca e di auto nervose di traffico. Di tutto questo il sole non sa niente e non ne vuole sapere, siamo noi a raccontarci nel tempo un altro tempo, altre storie, qui dove si viene su un confine della Città.

Siamo là in quella sala ritrovata e “rifrabbrecata” dalle mani di Luca, Domenico, di tutti che da due anni e più di tanti giorni che fanno calendario di tutta un’altra storia appena cominciata. I luoghi si liberano occupandoli. In questo caso ci si insediati in un luogo abbandonato, dismesso. Non è allora un’occupazione e non è una liberazione, ma un’obbedienza virtuosa alla vita, alla bellezza, alla memoria di tante storie che quel luogo suggestiona. Chiunque di noi ci è arrivato, in ogni età, di un giorno, di un anno, anche solo per affacciarsi dalla terrazza della curva sulla rampa che sale al capo di Posillipo. Come un corpo è questa città, che curiosamente nomina ogni volta solo il capo, perché ricomincia sempre e sempre sta in piedi, e poi il “capo” è “prima”, “all’inizio”, e “in alto”. Sant’Aniello a cape e Napule, o capo e Pusillepo, a Capa e Napule … n’capa, ncoppe, e abbascio, addo sta sempe ‘o mare. È così questa Città, che vuole vivere ancora e sempre delle sue arie, del mare, delle voci della gente che la vive.

I luoghi sono le persone che li abitano, vi hanno casa, vi lavorano, li camminano, vi si s’incontrano, stanno assieme. E quando un luogo viene abbandonato anche le persone che lo abitano vengono lasciate sole. E questo è da pensare: quando un’economia consuma la storia delle sue forme, del suo potere, delle sue relazioni di schiavitù, di servilismo, di salariato, parola che sa di sale. Quando si dismettono i luoghi di una storia di vita di lavoro, si dismettono anche abitudini, relazioni, tradizioni, si perde una quotidianità, una “sicurezza”, l’attesa di domani. Quando l’Italsider ha chiuso, prima a poco a poco, tra i singhiozzi di scioperi e occupazioni, proteste, scontri, e poi per sempre, un giorno, quello che è venuto, allora il “giorno dopo”, non è stato come quello atteso, ci ha lasciati impreparati a cercare un tempo che non c’era prima, lasciando i luoghi frequentati a poco a poco a consumarsi come una memoria che sbiadisce. Lido Pola è il simbolo di questo confine da un giorno all’altro, da una storia a un’altra storia, da una pietra a un’altra, da voci ad altre voci. A poco a poco, e questa volta sarà una liberazione, forse, chissà, bisognerà occupare l’isola e prendersi Nisida.

C’è la bocca aperta del commissariamento di Stato sul Lido Pola come su tutto il litorale di Bagnoli. C’è la bocca spalancata della speculazione pronta a riprodurre un’economia di potere, di colonizzazione, di proprietà.

La Città sta scoprendo la fine di un imperativo economico che lascia e abbandona come in fuga i resti che furono di un potere che si distende altrove sul pianeta e ridisegna i programmi geoindustriali, perché la ricchezza si fa sull’uso dei corpi, altrove, o facendoli arrivare da altrove.

Lido Pola è diverso dall’ex Asilo Filangeri, come dalle strutture occupate nel Centro Storico della città. Qui si tratta di rendere “storico” un nuovo insediamento. Diversa è la collocazione urbanistica, qui si tratta di riabitare, di fare economia per altre forme di relazioni e di comunità.

Qui la gente viene e se ne va, è un confine, bisogna allora abitare questo confine, inventare nuove scuole e liberare desideri, operare servizi comuni, in comune. Qui s’impone una svolta audace, che faccia memoria di quel che già sta accadendo in questa città. Qui è il capitolo di un insediamento di vita del tutto diverso. I confini di una città sono fatti di voci, da qui bisogna che le voci prendano parola per nuove forme di abitare, per un’economia senza proprietà.

Bagnoli è stato la punta occidentale di produzione e di ricchezza della Città, dismessa, ora, da qui, può cominciare un’economia senza proprietà, un’economia del possesso senza proprietà. Fin qui il valore di scambio e il valore d’uso sono rimasti separati, giusto a salvaguardare il potere economico della proprietà. È questa, la proprietà, che separa valore di scambio e valore d’uso. Una forbice resa ancora più larga dalla distribuzione che mantiene distanti i due valori fino a essere il riflesso d’ombra minacciosa alla pareti delle case dell’altra forbice, quella di privazione e privilegi, sempre più distanti. Sul piano giuridico si avanzano i diritti per scrivere nuove separazioni. In quella forbice si dà il taglio definitivo allo Stato Sociale, facendo precipitare nel vuoto le misure sociali e i servizi pubblici. Questo Stato è senza società, non è più uno stato sociale, perché il sociale è sempre più calato nella commissione privata e nei commissariamenti che aprono ancora di più la forbice tra l’uso e lo scambio. Qui dobbiamo riflettere sul senso, la misura e la soggettività di quel che si chiama volontariato. Bisogna passare oltre. La posta in gioco è sempre là, la merce, che prende sempre di più la connotazione della mercificazione, qualcosa di diverso dall’alienazione di un tempo. La merce è il corpo proprio, qui passa lo scambio e l’uso. L’intreccio è come sempre speculare del suo capovolgimento. Bisogna allora riprendere le “frasi fatte” a “uso e consumo”. Bisogna cambiare il linguaggio, raccogliere altre ragioni per altri rivolgimenti. L’uso è lo scambio, il possesso è il passaggio, la proprietà è rendita, ferma, oppone, cintura, confina.

Il possesso senza proprietà è la chiave di volta di un’economia che rimette su un piano del tutto nuovo il rapporto tra scambio e uso modificando le relazioni che vi corrispondono. Lido Pola può essere un luogo di un’economia del possesso senza proprietà ovvero di uno scambio dell’uso, di un passaggio, facendo del possesso un bene comune di altri in altri, in una misura del tempo sociale. “comune” è quel che è proprio e improprio. Non c’è altra definizione, bisogna aver cura come di qualcosa di proprio di ciò che è improprio, di tutti e di ognuno. Lido Pola è uno spazio per dar luogo a un tempo diverso che modifica la destinazione degli spazi, senza proprietà facendone un bene comune sociale.

Non sarà allora solo un luogo di servizio del “dopo” lavoro o del “dopo” scuola o del “tempo libero”, questa logica del “dopo” deve essere invertita, deve diventare “prima”, assumere il valore di una priorità o semplicemente del prima di un tempo che viene, che costruiamo, che raccontiamo per un’altra storia. Il lavoro deve ridiventare arte di costruzione di relazioni e forme di vita per una comunità sociale e una società comune. Il lavoro deve essere sociale, in comune, partecipato. Può essere anche come nell’esempio di un ristorante popolare, dove ci sono i pescatori e i cuochi, i fruttivendoli e i droghieri, facendo anche spesa dei prodotti a scadenza o andando per le campagne e gli orti nei dintorni. Quella del ristorante è un’immagine, ma è anche quella che rende la misura per ogni altra di servizio produttivo di ricchezza e gioia, per il suo essere di ristoro e comune di tanti parti che possono stare insieme soddisfacendo il bisogno di tutti col desiderio di ognuno.

Sarà lo stesso con l’invenzione di una scuola, di un tempo diverso di apprendere e sapere, mettendo insieme scelte e conoscenze, facendo a meno di competenze e competizioni.

Viene facile proporre subito la festa aprendo per una sera il ristorante dove ognuno porti piatti e posate coinvolgendo arti e mestieri.

Ieri è stato un pomeriggio di sole al confine della città, dove la città si può sognare e dove il sogno è il sole che viene dal mare e colora i volti di chi sognando insieme ne riluce.

lido Pola