Il dolore

Febbraio 5, 2014 Posted by Approfondimenti 0 thoughts on “Il dolore”

Forse è come per l’amore. A farne un discorso non bisogna essere innamorati, né trovarsi sotto l’eccitazione dell’alcool, ubriachi, come lo sono gli innamorati quando si parlano d’amore. Questa condizione Platone pose a principio del Simposio. A fare discorsi d’amore bisogna essere sobri. Forse è così anche per il dolore. Si può tenerne un discorso solo se non si è addolorati. Dopo, quando è finito o quando sia stato solo vissuto nell’esperienza dell’altro.

Il rimando poi all’amore non appaia così strano. L’amore è il contrario del dolore, non il piacere, che pure vi si rimanda. Si può anche affermare che l’amore si oppone al dolore e l’accompagna. Il piacere anche ne è intricato ed è piuttosto una sensazione, il dolore invece è l’una e l’altro, indica una sensazione ed è un sentimento. Certo l’amore è piuttosto una passione e solo nelle relazioni dative si precisa nella molteplicità degli affetti che vanno dall’amicizia all’amor proprio. Il dolore non è una passione, eppure si patisce. Al punto che si può anche affermare che sia una flessione della passione.

I Greci distinguevano tra algia, lupeh, ponos e pathos. Precisavano il dolore fisico, la sofferenza, la pena e la passione. Anche il tedesco distingue tra Weh, Schmerz e Leiden. L’italiano indica l’aver male e il patire, il soffrire, lasciando al dolore di dire tutto quanto, il male e la sofferenza. I Greci facevano risalire il pathos e i pathemata al paschein. Strana espressione questa che dal greco fa rimbalzare all’ebraico, almeno nell’assonanza, e avvicina il dolore alla pasqua, cioè al passaggio. Dire perciò pasqua di passione significa ripetere questo nesso tra il passare e la passione. Quasi che la passione non sia un subire, ma un passare intransitivo e perciò interiore.

Il dolore è proprio del passare, di ciò che passa, di ciò che si passa, quasi uno stare tra, parte a parte, tra il bene e il male, dentro la via, nell’immanenza del Bene e del Male. Un trascorrere sospeso. Si può voler bene nel dolore e si può dare dolore anche a voler bene. Lo si conferma quando si risponde all’altro “si, mi ami, ma non sai amare”. Con l’espressione non si allude certo ad un sapere amare come ad un percorso preciso di pratiche ed espressioni, si allude invece ad un sapere che non fa male. Quando si ripete “mi ami, ma non mi sai amare” s’intende “il tuo amare mi fa male, mi da dolore”.

E’ curioso constatare come il dolore indichi una sensazione e un sentimento. Segno che quel passaggio di cui è esperienza si possa indicare come passaggio dai sensi ai sentimenti, dal corpo all’anima, verrebbe da dire, una sensazione dentro la sensazione, perciò sentimento e, ancora, un sentimento dentro un sentimento. Comunque è un passare che passa dentro. Il dolore è immanente. Dice di quel che rimane, che si tiene mantiene dentro. Che immane, si manifesta dentro. Un passare interiore. Un mutamento che si mantiene, conservandosi. Un passare che resta. Rimane. Ne resta traccia. E per i sentimenti, è noto, le tracce sono piuttosto solchi, tratturi dell’animo, di cui i segni del corpo sono un’espressione.

Il dolore ha a che fare più direttamente con i segni. Si dice anche di qualcuno che è “segnato dal dolore” quando si vuole indicare una persona che abbia, appunto, attraversato un momento difficile, chi ha sofferto. I segni si può anche dire sono indici di dolore, incidono. La gioia no, non lascia segni, la gioia toglie ogni segno. Non insegna nulla. Il dolore invece insegna. Cosa che vale per la sensazione quanto per il sentimento. Il dolore insegna a sentire. Fa sapere.

Ed è questo forse l’altro aspetto del passare. Sapere. Lo si acquisisce con dolore. Pensiamo al dolore dell’educazione, al dolore dell’imparare. Pensiamo anche a quel detto “meglio non sapere”. Meglio non far conoscere. Perché far sapere o sapere è tradire e tradirsi, contraddirsi, perché sapere fa male. A riferirne ci si accorge che il rapporto tra dolore e sapere è davvero strano, non certo lineare nella comprensione del suo rimando. Il sapere si tiene lontano dal dolore, lo supera, lo vince, lo prova, lo tiene a distanza, lo cancella, lo elimina, eppure è là, per quanto si voglia non saperne. Saper essere è nella tradizione della cultura maschile lo stesso del saper vincere il dolore, nel saperlo sopportare. Nel saperlo non manifestare. Così scopriamo subito che è qui nascosta una questione che sa di rimozione e che attiene allo sviluppo e alla strutturazione della coscienza, almeno di quel che si intende per “saper essere”. Il rapporto tra sapere e dolore è tale che il sapere tiene a distanza il dolore, lo spiega, lo giustifica, se ne da ragione, lo supera, lo sublima, lo elimina. Viene perciò immediato chiedersi se ci possa essere un rapporto tra sapere e dolore che non sia di eliminazione e superamento, qualcosa che chiama subito in questione l’ordine del discorso, non solo, ma anche l’ordine delle relazione che ne dipendono.

Sarà allora “meglio non sapere” o un sapere che abbia nel dolore il proprio limite e non un superamento da conquistare?

Si fa subito innanzi in questo caso l’inganno e il tradimento, l’illusione, quel continuo scartare il dolore su cui si definiscono le relazioni a sé e all’altro. Sempre condotte sul piano di una deviazione che arriva fino alla devianza, che passa dal piano psichico al piano giuridico. Il tradimento è ancora accompagnato dal dolore. La verità, si dice, è dolorosa. Cerchiamo allora di prendere il senso più da vicino. Cerchiamo di capire anche perché il sapere sia talvolta, non sempre doloroso, e sempre porta ad un passaggio, ad uno spostamento. Sarà anche per questo che ci si assesta su un sapere codificato, sarà anche per questo che ci si chiude in un “non voler sapere”, in un “non voler sentire ragioni” per restare chiusi nel proprio sapere, per “non voler sapere altro”, per “non volerne sapere dell’altro”. Di non accettare altro. Ed è ancora più strano questo passare del sapere che è come un andare avanti che procede a ritroso o come un salire che è un discendere. Approfondire è andare più addentro. Più si apprende e più ci s’incaverna o si va a fondo. Il problema è po’ risalire o capire se c’è un’apertura di luce oltre, un altro fondo, un’altra caverna. Sarà vero quel che diceva il filosofo della trasvalutazione dei valori quando ripeteva che dietro una caverna c’è ancora un’altra caverna e così a seguire. Si potrà anche affermare che ogni caverna o andare a fondo è strutturata dal sapere in modo tale per cui è nel modo di sapere che si compone il fondo e la caverna su cu arriviamo e stiamo.

Ci sono due passaggi, questa volta letterari, nel Sophista di Platone. Entrambi rimandano ad un passare che è un apprendere e un mutare. Lo si trova all’inizio, credo che sia il passo, più ripetuto nella letteratura filosofica, là dove si legge che gli antichi, quelli che ci hanno preceduto non hanno avuto rispetto per noi che seguivamo, perché non ci hanno spiegato che cosa intendessero veramente quando parlavano dell’essere e quando lo richiamavano usando espressioni che ci appaiono immaginose. Nel testo si legge che questo significa che dobbiamo imparare da noi stessi che cosa sia essere, dobbiamo sperimentarlo, dobbiamo provarlo, dobbiamo passarci noi stessi, dobbiamo “paschein”. Platone è ancora più espressivo quando nomina il pathos del filosofo di fronte all’essere quando si tratta di indicarlo con un precisa definizione. Alla fine più che la definizione sarà il luogo che per esso viene raggiunto dal filosofo distinguendolo dal sofista. E quel luogo sarà caratterizzato dal “lampron”, dallo splendore e sarà una regione, una “chora”, più che un luogo definito. Una terra.

Viene da chiedersi se non sia questa il dolore del filosofo, il sentimento che s’accompagna al passaggio del suo sapere, che non sarà mai una scoperta quanto piuttosto un venire allo scoperto. Non sarà mai l’identificazione di una cosa, ma quella identificazioni per cui la cosa e l’identificarla si annullano scoprendo il dolore del vivente come tale. Il malessere, il dolore dell’essere.

IL Sophista di Platone è tra i dialoghi quello in cui forse ricorre con più insistenza il richiamo al dolore e alla ricerca di una via “eneu toon pthematoon” in cui sia possibile riuscire a sapere di per sé i nomi delle cose e i rapporti degli enti fuori da quelle favole raccontate da altri a noi come a dei bambini. Crescere è doloro. E ancora siamo rimandati a un passare, a un sapere che è un passare da una cosa a altra cosa nel mentre siamo noi stessi a passare da un essere ad un altro essere, da una condizione ad un’altra. Questa correlazione tra passare e sapere è tale da porre di per se stessa la domanda sul saper passare.

Stare nel passaggio, essere di passaggio. E non ritornare. I filosofi, questo è straordinario, hanno cercato un ritorno impossibile. Lo hanno trovato là dove proprio poteva esserci. Lo hanno trovato nello stare. Hanno pensato il ritorno del momento, dell’attimo, di ciò che del tempo è l’espressione, lo hanno rinvenuto nel passare. Questa straordinaria meraviglia della filosofia è l’espressione di un ritornare là dove mai si è stati prima, un ritornare di ciò che non ritorna mai. In tal senso il ritorno è il familiare, il familiarizzare, l’abitare l’essere, abitarlo nella casa del tempo.

Non c’è maggior dolore del tempo che passa e che passando corrompe, delude, spegne, fa morire, allontana. Mi sono chiesto tante volte quale fosse del tempo il suo passare. Mi sono chiesto tante volte come noi passiamo il tempo. E come possa alleviare, se mai possibile, il dolore che rimane del suo passare.

I modi per dire il passare sono tanti.

Percorre un tratto o lo spazio che separa due luoghi.

Transitare, muoversi, viaggiare, soggiornare, andare oltre, superare, eccedere, trasferire, mutare, essere promosso,, trascorre.

Trasferire, strofinare, accettare, promuovere.

Morire.

Passare è anche morire. Ma come passa poi il tempo che pure a passarlo si dice trascorrerlo, correrlo attraverso. Chiedere ancora di come passare il tempo significherà anche trovare come passare, doppiarlo, stargli avanti, superarlo.

Viene sempre in mente Nietzsche, presente fin dalle prime battute di questo discorso che ha preso per titolo il dolore nel bene e nel male. Non si può pensare a Nietzsche di “Al di là del bene e del male” anche al di là del dolore, al di là del tempo, al di là del sentimento del dolore e del sapere e di là del passare.

In fondo il dolore è dentro il bene e dentro il male. Sta tra l’uno e l’altro il suo trascorrere e passare. E’ il tempo, ed è fatto di tempo. Non passa mai il dolore eppure passa solo col tempo e col tempo anche finisce. Il dolore mette allo scoperto, come una ferita l’essere finito. «Tutto ciò che è finito, – ha scritto Leopardi – ultimo, desta dolore, ma insieme le parole che indicano il finito per sempre sono poeticissime e  provocano un sentimento piacevole nello stesso dolore».

In fondo le parole stanno al tempo come il sentire alla sua grammatica. Le parole sono il grammo del tempo, danno peso al suo fluire. Gli danno un ritmo interiore, tramano il suo passare. Ed è per questo che Leopardi poteva anche scrivere che il dolore «anche quello più profondissimo e ostinatissimo è vinto, consolato dal tempo».

La cura del dolore è la consolazione. E certo si potrà affermare che consolare sia dare corso al tempo, sia conciliare il tempo e la parola, come a far scorrere il tempo nello scorrere del dire. Consolare è anche intrattenere, promuovere una sorta di trattamento del tempo di fermarlo e farlo scorrere insieme. All’infinito. In un infinito intrattenersi, che non è un intrattenersi all’infinito, ma nell’infinito, in quel che non finisce. Come si potrebbe affermare che pensasse Blanchot. Le parole che consolano sono poi quelle che stanno vicino. Non importa cosa dicono, importa il loro fluire. Stanno dentro al bene e dentro male, fanno bene e fanno male. Chi soffre e ha vicino colui che lo consola sa che sta fingendo e finge di non saperlo. Sa che è inutile. E perciò ne apprende l’importanza.

Affligge certo saperlo e insieme anche allevia, perché le parole non dicono nulla, quando il dolore è estremo, fanno compagnia, stanno vicino. Chiunque lo ha provato nelle sere dimesse della vita quotidiana e affaccendata, quasi non le ricordiamo e non se le ricorda chi ne soffriva. Attendeva. Nel dolore si attende, si aspetta che finisca. Ma è un attendere nulla, puro attendere, semplice svuotamento dell’attenzione spinta nella distrazione della parola che ti fa stare vicino a chi parla e dice parole finite ma ridondanti, parla e dice la sua voce. Parla e dice della vita, del vivente, del voler vivere di nessuna vita che non sia la semplice vita. Allora ci si sente uomini e animali. Si è animali nella consapevolezza del passare e del non appartenere a quel passare, solo di esserci dentro, nel bene e nel male. L’animale non lo avrà mai ricordato. Perché l’animale è ancora natura, ne fa parte. La sua esistenza coincide con la vita. L’uomo invece se la rappresenta e per ciò stesso se ne separa. Così l’esistenza di ognuno si separa dalla vita e cerca di viver/la. Sarà il dolore a separare la vita propria della vita impropria, la vita che si ha come esistenti dalla vita che si è come viventi :Quando l’una è piena dell’altra, si è felici. Sarà allora questa congiunzione da operare o piuttosto da tenere. Il dolore ci separa. Da tutto il resto e in noi stessi ed il fatto di un tale separarsi.

Eppure ce lo nascondiamo. Leopardi e Nietzsche hanno ripetuto, in modo del tutto differente, come si sia dato questo progressivo nascondere del dolore, come cioè nel primitivo e nell’antico il dolore trovasse la manifestazione che non trova adesso. Forse perché prevaleva il manifestare, mentre poi col moderno prevale il dichiarare. E chi vorrebbe dichiarare il proprio dolore senza venirne offeso dalla sua stessa ammissione, davanti ad altri. I Greci, o quel che dei Greci immaginiamo sia stato, ebbero questo manifestare. Ebbero i fenomeni, non le rappresentazioni. La tragedia non rappresentava. Indicava il dolore come manifestazione stessa del divino e come veniva anche restituito al divino, al suo enigma. Al nascosto. E noi che siamo in un mondo dove tutto appare siamo senza la manifestazione del dolore. Vediamo tutto, i corpi, vediamo lo strazio, nomiamo la disabilità o il diversamente abile per nascondere il dolore. Noi che viviamo in una società che nasconde il lutto e non sa essere neppure malinconica. Vediamo tutto senza manifestare nulla. Meno che mai il dolore.

Eppure sarebbe questo un limite per la ragione che ha smarrito il proprio limite illuministico che si rappresentava nell’esperienza. Non riusciamo più a distingue il possibile e l’impossibile, anzi, sappiamo che il possibile è ciò che può accadere, ma l’impossibile, lo sappiamo, è quel che accade. Non c’è limite. Solo il dolore può farsi limite. La sua manifestazione. Il suo diritto.

Lo comprendiamo in qualche modo nella conoscenza e nell’educazione. Quel dolore, che è ancora un passaggio dal sapere a non, che è l’educarsi stesso al saper passare, il conoscere stesso a saper passare, quel dolore lo conosciamo e lo proviamo, come un compito, una fatica, che finita produce i suoi effetti.

Quale gioia allora potrà opporsi al dolore che non gli appartenga? Quale gioia e quale amore che non sia, che non resti nel bene e nel male che procura?

Cosa possiamo chiedere alla filosofia? Quale passaggio? Quale trasformazione? Ed è per una tale richiesta che la filosofia si avvicina e si allontana dalla medicina. Chi cura è dentro la malattia. Non fuori di essa, né avrà la malattia ad oggetto della sua osservazione, né mai saprà distinguere il bene e il male come due parti separati. Questo farà la differenza di guarigione filosofica. Essere in vita. Non sanare o salvare. Essere in vita nella vita.

«Nessun dolore potrà indurmi a una falsa testimonianza contro la vita», ha scritto Nietzsche. Si può affermare che l’abbia scritto a firma del suo non pessimismo, del suo nichilismo attivo, come si dice o, semplicemente, a firma della sua testimonianza per la vita.

Quella “interpretazione del corpo” come la chiamava produce un suo annullamento, per una idealizzazione, per un ammonimento morale, per un agire stoico. «Non ci sentiamo abbastanza male per doverci sentire male alla maniera stoica» ripeteva nel mentre premetteva le sue istruzioni di una nuova salute o di una gaia scienza, di una scienza felice.

«… abbastanza spesso mi sono chiesto se la filosofia, in un calcolo complessivo, non sia stata fino ad oggi soltanto una interpretazione del corpo e un fraintendimento del corpo. Dietro i supremi giudizi di valore, da cui fino ad oggi è stata guidata la storia del pensiero, sono nascosti fraintendimenti della condizione corporea sia da parte di individui che di classi e di razze intere.»

Qui il corpo non è semplicemente il corpo, è una vita immanente alla vita. Semplice vita. Ne porta i segni del passare e su di essi scriviamo ancora facendone un corpo scritto di una memoria che la vita non avrà mai, perché rinasce somigliando, non ricordando. Il corpo porta la memoria nella somiglianza. Così la vita somiglia alla vita, una vita somiglia a un’altra vita. Senza per questo ricordarla, ma risuonandone. Nella voce.

«Sono ancora in attesa che un filosofo medico, nel senso eccezionale della parola, – inteso al problema della salute collettiva di un popolo, di un’epoca, di una razza, dell’umanità – abbia in futuro il coraggio di portare al culmine il mio sospetto e di osare questa affermazione: in ogni filosofare non si è trattato per nulla, fino ad oggi, di “verità”, ma di qualcos’altro, come salute, avvenire, sviluppo, potenza, vita…»

Ma forse, si potrà anche affermare, che per avvenire e sviluppo e potenza non si è trattato propriamente della vita, ma della propria vita, di un individuo, di un popolo, di una razza. Sarà perciò da continuare ad ascoltare le parole di Nietzsche ancora di più dove insiste sul sospetto. Ed essere anche noi sospettosi delle sue parole, non delle sue parole, piuttosto sospettosi della nostra vita, cioè della nostra esistenza. Nietzsche è stato chiaro quando ha affermato che è il dolore che ci rende sospettosi. «Il grande dolore soltanto è l’estremo liberatore dello spirito, in quanto esso è il maestro del grande sospetto» e la sua azione è quella di trasformare ogni U, scriveva, in una X, nella penultima lettera dell’alfabeto. La penultima, perché ne rimanga sempre ancora una come ultima. Un resto, che dice la vita stessa che resta.

Si può essere malati di dolore, ci si può ammalare di dolore.

Eppure c’è un rapporto tra vergogna e dolore, c’è un rapporto irrisolto. Perché togliere il dolore?

Se non si può parlare, se non si può scrivere il dolore, se chi ha dolore non può dirlo, che cosa noi diciamo vicini al dolore. Questa funzione di vicinanza della parola, questa funzione di soglia, mette la parola tra il mondo e la vita. Tra la vita che si ha e la vita che si è.

(trascrizione dell’intervento presso l’Istituto Italiano degli Studi Filosofici)

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