La paura e la verità del desiderio

Marzo 5, 2012 Posted by επιμελεια - Epimeleia 0 thoughts on “La paura e la verità del desiderio”

C’è una strana corrispondenza tra la paura e la speranza. S’intrecciano. Girano intorno ad uno stesso asse. L’Altro. E’ l’altro che suscita paura. E’ altro. Ciò viene da altrove ed è qui, non di qui. Estraneo. L’Altro è senza volto, non persona, scuro in viso, non è riconoscibile, non fa parte della casa, non ha cittadinanza, è fuori della comunità. Non si sa cosa e chi. Ospite ostile. Minaccia, non sta ai patti. Non rispetta i confini, invade. E’ di un altro genere. Di un altro luogo. Parla un’altra lingua. Ha un pensiero altro. Senza contorni precisi. E’ fuori del discorso. Illegibile. Illegale. Improprio. L’altro è il buio, ed è nel buio. E’ l’ombra. Abbuia l’animo, oscura. Lascia la voce strozzarsi in grido o farsi attonita. L’altro è prima ancora del dubbio. Prima ancora del rimando. Non lascia tempo al giudizio. Minaccia. E’ l’altro da cui si fugge.

Eppure è ancora l’altro, in un movimento contrario, a suscitare la speranza. L’altro che si cerca, l’altro che si vuole rappresentare, l’altro che si vuole diventare, l’altro che si vuole che ritorni, l’altro che si attende. Bisogna seguire un tale movimento, un tale moto interiore, per capire l’intreccio di speranza e paura, ma anche per capire che l’affezione da cui si generano è del corpo, prima ancora che come affetto trovi un causa adeguata al suo presentarsi.

La distinzione è di Spinoza. L’affezione è propriamente del corpo. L’affetto è quando l’affezione trova una causa adeguata, quando la mente registra i movimenti del corpo riscoprendoli come propri, moti dell’animo. La corrispondenza tra mente e corpo appare nell’Etica smarrirsi per un momento. Spinoza è costretto a ritornarvi pure dichiarando di averla precisa in maniera definitiva già prima (Scholium, Demonstratio, Propositio II, Pars III). E’ un aggiramento continuo. Un ricorrersi a cerchio per una tale corrispondenza che comprova la funzione del tempo e perciò dell’esperienza e della significazione concettuale che le è seconda. Un aggirarsi e rincorrersi che solo nell’eternità dell’amor dei inteclualis si acquieta, trova acquiscienza e abbandono. Il corpo e la mente si corrispondono in dio, ma c’è da farne esperienza prima di giungere alla verità di un tutt’uno. La mente trova la causa dell’affezione traducendola in affetto, la mente corrisponde al corpo, lo adegua, gli si adegua. Dopo. I significati sono il nostro ritarso sulle cose. Le cause vengono dopo che le cose sono avvenute. Prima il corpo sente. Ed è solo. Semplicemente ha affezioni. La paura è la prima affezione. Non è ancora chiaro cosa sia. Si accompagna alla passione triste, puà diventare disperazione, opposta alla speranza, che può tradursi in letizia. Il parallelo della corripondenza quasi cambia binario sulla corrispondenza oppositiva di passioni tristi e passioni liete. Prima c’è ancora qualcosa d’altro. Qualcosa che dice d’Altro, qualcosa che dice dell’Altro.

Il desiderio si pone al centro di questo doppio movimento del corpo e dell’animo, del fuori e del dentro, in un cambio di direzione che muove ora in un verso ora in quello opposto. Il desiderio è tra la speranza e la paura. Ne sollecita le oscillazioni, ne riprende le emozioni. Da fuori a dentro e da dentro a fuori. Il desiderio attraversa la paura e si traveste della speranza. Lega l’una all’altra. Permane nell’affezione. Sentimento non ancora. Non c’è tempo. I sentimenti invece sono riflessivi, non speculari, cangianti, non mutevoli. I sentimenti sono fatti di tempo. Cambiano col tempo e nascono e svaniscono col tempo. Hanno un’età, ma hanno anche un’epoca. S’insinuano nella storia come nella biografia, permettono di raccontare il mondo proprio e quello comune. Vanno dall’uno all’altro. Legano e sciolgono l’uno all’altro mondo tra la speranza e la paura.

Le emozioni si danno, le passioni si hanno, i sentimenti si educano. Le affezioni prendono il corpo, gli affetti muovono l’animo, le passioni si hanno per natura, s’impongono. Le emozioni sono improvvise, come le impressioni sono immediate. I sentimenti perdurano. Conservano. Sono più vicini al ricordo, giacciando al fondo. Insistono. Le emozioni si danno in segni, i sentimenti in voci. Hanno voce, vanno in cerca in cerca di parole. La paura può fare per intera la scala dalle emozioni ai sentimenti, ed ogni volta produce moti e stati differenti. Sono le paure. Sociali, personali. La paura rimanda sempre alla solitudine, al sentirsi soli ed esposti. Ed è per questo anche quell’affezione che si traduce nell’affetto dell’Io. Le paure sono differenti. La paura fa la differenza. E’ generativa, richiama un generare differente, un genere e un altro. La differenza si scopre nel egenrare, di ciò che genera la paura e di ciò che si genera dalla paura. L’uso che se ne fa, il modo in cui la si vive e la si sfida. Il suo diventare timore e il suo insistere in desiderio, il farsi precoccupazione e darsi come cura. L’uso della paura, l’aggirarla, il solecitarla, il deviarla, il donarla. Fuori dai sentimenti la differenza di genere è un calcolo, una rappresentazione logica, grammaticale. Utile a disitnguere e a mettere in fila, a registrare. I sentimenti sono invece singolari nel loro essere comuni. Ed è in questo comune singolare che la differenza di genera si genera e genra nell’assoluta individualità.

La paura è un’affezione, non è un affetto. Lo si legge in Spinoza. La mente non trova per essa una causa adeguata a ciò che il corpo proprio percepisce. Non ha causa adeguata. La Mente umana non percepisce alcun corpo esterno come esistente in atto se non mediante le idee delle affezioni del suo Corpo (prop. XXVI, P. II). Domina il dubbio, il sospetto. E sempre la paura è attaccata alla speranza. «La speranza infatti non è altro se non una letizia incostante, nata dall’immagine di una cosa futura o passata, del cui esito dubitiamo. La paura invece è una tristezza incostante, nata dall’immagine di una cosa dubbia. Se ora da questi affetti si toglie il dubbio, la speranza diventa sicurezza e la paura disperazione» (Sc. II prop. XVIII p. III) Manca alla paura come affezione la causa che la genera. La paura è la percezione dell’estraneo, del fuori, che presto diventa il fuori di sé. Fino a presentarsi anche come paura di se stessi senza che se rappresenti una causa precisa. L’altro, l’altra, restano figure indistinte, inadeguate a ciò che si percepisce, si avverte, si sente. Si è a se stessi indistinti. La paura ne sbarra l’accesso. Assale. Al posto dell’altro, dell’altra, figura un’ombra, il buio, il vuoto del buio. Ad avere paura il corpo si nasconde nel corpo. Le mani fasciano il viso, coprono gli occhi, ci si piega, ci si raggomitola. Allora la paura è interiore o, che è lo stesso, non c’è più difesa dal pericolo che avanza tutt’intorno.

La paura dell’ombra è la prima di cui si fa esperienza. E’ la paura dell’altro senza identità, figura senza immagine, lineamenti del buio. E’ la paura prima. Ogni bambino la incontra e la rimuove. La paura prima è la propria ombra. “Ci segue”. “Ci vede” e “si muove” al nostro muoverci. E’ il primo passaggio di una fenomenologia che scandisce quel processo di continua messa in chiaro. L’ombra diventa fantasma. Una presenza. Nascosta. Si avverte, non si vede. Se ne sente il rumore, la voce, non si vede. Poi assume i lineamenti di persona. Si confonde con il ricordo ed è un ricordo inceppato nell’animo, il ritornante nel buio dell’io.

Ancora un passaggio, la paura è allo specchio. E’ l’io. Inquieta. E’ il corpo proprio che inquieta. Il fuori adesso è il corpo stesso. Aspetta di essere riconosciuto proprio, di essere vissuto come proprio. Segue il passaggio alla maschera. Il travestimento. L’altro. Ancora fuori. Ancora estraneo, ancora turba. Poi l’amico. Colui che accompagna. Chi sostiene. Ascolta le mie parole, che io stesso ascolto dal suo ascolto, nelle sue parole. L’amico infonde coraggio. L’amico è il non nemico. Dalla propria parte e dall’altra parte. La paura stabilisce un tale confine. Un territorializzazione che dal terreno di confine giunge fino ai confini interiori e al proprio.

La paura stabilisce un confine. Una territorializzazione assai precisa. Lo si legge in Omero:“E il padre Zeus dalle alte vette fece sorgere in Aiace la paura (phobos), egli si fermò esterefatto, gettò indietro lo scudo dai sette strati di cuoio, tremò forte, guardandosi intorno, simile a fiera, voltandosi indietro, alternando a poco a poco ginocchio a ginocchio” Iliade XI. 544-7

La paura è recinsiva. Alimenta la proprietà, il proprio. Stabilisce un confine. Non un legame. Un confine territoriale, che si sublima a confine morale. Diventa un confine etnico, che sublima il confine etico. Fino a rappresentarsi come verità. La propria verità. Fino a contenere la verità nella forma de sapere. La iniziale territorializzazione sulla quale si arretra diventa ordine del discorso, il recinto che difende dalla paura diventa il piano discorsivo  che difende la verità. Adesso è questo strano rapporto tra la verità e la paura che viene emergendo. La verità fa paura e risolve la paura. L’ordine del discorso è inclusivo, stabilisce confini formula patti logici, ordini, grammatizza le parole, rende conto di nomi e di tempi. Controlla la voce. Il discorso è la voce che solo si può ascoltare, fuori del discorso le voci sono stonate, estranee, escluse.

Aice arretra. Territorializza il proprio spazio di difesa. E’ un guerriero. La sua difesa è la sua forza. Lo scudo. Si muove come una fiera. Dopo ci sarà ad essere fieri del discorso per vincere la paura.

«Ebbi paura che l’anima mia si accecasse completamente, guardando le cose con gli occhi e cercando di coglierle con ciascuno degli altri sensi. E perciò ritenni di dovermi rifugiare nei discorsi () e considerare in questi la verità delle cose […]. Comunque io mi sono avviato in questa direzione e, di volta in volta, prendendo per base quel ragionamento che mi sembri più solido, giudico vero ciò che concorda con esso, sia rispetto alle cause sia rispetto alle altre cose, e ciò che non concorda giudico non vero […].» (Fedone 99 E)

La paura incontra sul binuario di scambio la verità, che ne prende il posto. La sua verità. Il discorso diventa un territorio di sicurezza. Indica cause, soggetti, circostanza, spiega. Produce giudizi. Include ed esclude. Definisce un confine sociale, un confine di soggettività, il confine dell’Io Penso. E prima ancora, il confine delle Idee. Di un mondo simbolico in cui il mondo della vita trova spiegazione. Meglio, il mondo da confine alla vita. La include. La ospita. La custudisce. La sequestra anche. La paura incontra la sua verità. E’ la vita che mette paura? La vita come morte mette paura. Ed è su tale versante che la paura scopre la verità e il desiderio che la la strascina. Proprio il desiderio.

Il discorso toglie la paura, rappresenta la verità, ma la verità che rappresenta fa paura, non la si può dire tutta, né tutta si lascia dire. Il desiderio, letteralmente, nel suo etico, indica la frattura dell’ordine, la caduta dell’astro che si separa dall’ordine degli astri. La verità toglie la paura, ma la verità fa paura. Il desiderio accende la paura e spinge verso ciò che fa paura. «Anche la paura della morte che è propria dell’uomo comune attesta il desiderio di conoscenza dell’anima.» Si legge nel testo di Aristotele. «Essa infatti fugge ciò che le è ignoto, l’oscurità ed il mistero, e per sua natura cerca ciò che è visibile e conoscibile. … Per la stessa ragione riceviamo gioia dagli oggetti e dagli uomini a noi più familiari, e per l’appunto, chiamiamo amici queste persone a noi note. Tutto questo dimostra che amiamo ciò che è conoscibile ed evidente; e se amiamo ciò che è conoscibile, visibile e chiaro, necessariamente amiamo il conoscere ed il pensare». (Protreptico B103)

La paura svolge un’importante funzione sociale, stabilisci luoghi di sicurezza. Di conoscenza. Di conoscenti. Sempre più vicini, con sempre maggiore legame, gli amici, la famiglia, l’appartenenza. Ha una funzione pedagogica, fa da guida. La paura del voto, dell’interrogazione, della condotta, della bravura degli altri. Ma non si può svolgere una pedagogia della paura. Non bisogna educare alla paura o per mezzo della paura, piuttosto bisogna educare la paura. Spingerla a farsi sentimento. A tradursi in prudenza, in timore, fino a risolversi, a sciogliersi con l’amore, che sta tra la paura e il desiderio. L’amore vero. Quello che prende il posto della verità e da qualcosa ne fa una relazione. Un legame. Il più sicuro. Senza però un ordine preciso. L’amore non ha discorso. E’ fatto di parole, che prendono senso dalla voce, dal tono che fa sentire il proprio sentire di chi vi si pronuncia offrendosi all’altro/a.

Paura e desiderio sono intricate. Non per corrispondenza. Non per parallelismo. Non come per la paura e la speranza. Il desiderio opera al fondo. Nemmeno si può dire che sia un operare. E’ presente. Ed è la verità della paura. La verità della speranza. Il desiderio è come la verità che non si lascia dire. E’ diverso se a pronunciarsi è la voce del padre o se è la voce della madre. Il padre è sempre il padre del discorso. Il padre delletica. Tutti i libri di etica sono dedicati al figlio. Da Aristotele a Savater. C’è sempre il padre che fa il discroso al figlio perchéproceda sicuro nella società, fuori, tra gli altri, nel mondo. Dall’altra parte ci sono forse parole senza discorso. La madre dice “non aver paura”. “passa”, come la parola che conforta gli passa. La madre che ha paura della paura del figlio dice di non aver paura. Una paura incomprensibile quella del figlio, perché è una paura della vita che la madre che gli da vita “non capisce”. Non gli offre il discorso dell’inclusione e dell’esclusione, del riparo. Gli offre la sua paura. Gli parla. Lo fa parlare. Fuori dell’ordine del discorso. Parole intrise di paura e speranza, di desiderio. Parole vere, per un momento senza tempo. Non vere per sempre.

Paura e desiderio hanno lo stesso spettro emozionale. L’amore educa il desiderio, l’amore educa la paura. Educa la paura in timore e il desiderio in speranza. L’amore insegna l’attesa e la presenza, insegna ad essere presente, perché chi nella speranza attende prende anche cura, attende senza tempo ed è presente per questo. L’amore educa a stare tra l’evento e l’avvenuto, tra il passato e il futuro che viene dal presente che si racconta, s’immagina, si proietta, si sogna. E’ come noi amiamo che siamo anche qui, è come noi temiamo e come attendiamo. Tutto questo ci viene dalla paura e dal desiderio, dal fondo di una affezione contrastante e uguale, indistinguibile.

L’immagine che Leonardo da Vinci riferiva per dire della condizione di conoscenza della natura, si può trasferire dalla “caverna della natura” alla “caverna della propria natura”.

«… e tirato dalla mia bramosa voglia, vago di vedere la gran copia delle varie e strane forme fatte dalla artifiziosa natura, raggiratomi alquanto infra gli ombrosi scogli, pervenni all’entrata d’una gran caverna; dinanzi alla quale, restato alquanto stupefatto e ignorante di tal cosa, piegato le mie reni in arco, e ferma la stanca mano sopra il ginocchio e colla destra mi feci tenebre alle abbassate e chiuse ciglia e spesso piegandomi in qua e in là per vedere se dentro vi discernessi alcuna cosa; e questo vietatomi per la grande oscurità che là entro era. E stato alquanto, subito salse in me due cose, paura e desiderio: paura per la minacciante e scura spilonca, desiderio per vedere se là entro fusse alcuna miracolosa cosa» (Scritti Letterari, pag. 184, Rizzoli, Milano 1980)

Quanto è diversa l’immagine della caverna di Leonardo da quella di Platone. Qui ci si trova fuori della caverna. Nel mito di Platone si esce fuori dalla caverna, ci si libera. Dentro ci sono ombre di corpi costruiti da uomini e da loro stessi portati lungo un muretto che prende luce dal fuoco. Fuori c’è il sole, ed è al sole che la vista si rischiara. Bisogna uscire dalla caverna, dalle ombre che scambiamo per essere viventi e parlanti, mentre non sono che artifizi umani.

Leonardo invece è là, fuori della caverna. Vi guarda dentro. Ne è attratto e spaventato, lo desidera e ne ha paura. Paura per la minaccia, desiderio del mirabile. Del non visto prima. Ciò che fa paura e si desidera per venirne in possesso ed acquisire un nuovo sguardo. Per Platone è il sole che rende mirabile ogni cosa. Per Leonardo il mirabile è anche nel buio, siamo noi stessi a rischiararlo. Ciò che conosciamo per paura e desiderio è anche una conoscenza desiderosa e pericolosa. Per Platone è l’eros che ci muove, e l’eros è tra il sapere e il non sapere, una mescolanza. Ed è proprio questa la conoscenza che viene dalla spinta dell’eros, la mescolanza, il misto. Con Leonardo, con il Moderno, lontano dal Greco, la mescolanza della conoscenza che alimentiamo e alla quale ci educhiamo è tra la paura e il desiderio, è desiderosa e pericolosa.

«Noi non sappiamo che cosa può un corpo», diceva Spinoza dando alla mente la funzione di trovare una causa adeguata e tradurre l’affezione in affetto, passando dalla passione all’azione, giungendo alla soggettivazione, all’essere soggetto, non senza rilevare che l’essere soggetto è un assoggettamento, che si riscatta e si libera solo come abbandono, acquiescenza. Spinoza distingueva tra l’affezione e l’affetto indicando quest’ultimo come l’affezione che trova, da parte della Mente, la sua causa adeguata o inadeguata. L’una per un affetto gioioso, l’altra per un affetto triste. L’affetto è perciò determinato, consaputo, vissuto con consapevolezza. L’affezione è piuttosto qualcosa che ci prende, è propria del corpo e della mente, ma di quel che la mente non sa del corpo e che la mente non sa di se stessa perché «l’essenza della Mente consiste nell’idea del corpo in azione», ma noi non sappiamo – la Mente non sa – che cosa può il Corpo. Pensiamo perciò di essere liberi nelle nostre azioni, ma accade, al fondo della nostra chiarezza e distinzione, di essere come sonnambuli o come ubriachi, o fanciulli, bambini, drogati. Al fondo della nostra libertà di dire e fare questa e quella cosa opera qualcosa di sconosciuto a noi stessi, alla nostra mente, ed è il corpo. Noi non sappiamo che cosa può il nostro corpo.

Ed è questa la paura. Questo non sapere, questo non poter indicare una causa adeguata alla nostra affezione e di non riuscire perciò a tradurla in affetto, in sentimento, a trovarvi perciò un legame, a fare della paura stessa un legame e a trasformarla in sentimento, perché non sia più paura. Semplice affezione. Ne va del nostro essere vero. Di ciò che siamo veramente e del come poter essere delle persone vere, degli individui, degli uomini in verità, che dicono la verità e sono veri, manifestando il proprio essere autentico.

Non la verità, ma essere veri. Una relazione di dentro e fuori di sé. La relazione di ciò che si è e di ciò che si ha. Tra la vita e l’esistenza. L’una che ospita l’altra ed è dall’altra ospitata. La paura viene dalla vita e bussa alla porta dell’esistenza, della propria vita, quella delle proprie scelte, dei propri progetti, quella si dà preoccupazioni e cura, legami e sentimenti. Quella ci si costruisce. La vita bussa alla porta di questa casa, di ques’edificio. Reclama una sempre nuova ospitalità, entra prepotente e con violenza se ne va via.

Occorre donare la paura per essere veri. Questa è la conclusione cui sono giunto. Ho interrogato giovani e bambini, studenti, docenti, adulti, ho interrogato i libri che mi sono cari, ho letto le loro pagine come fossero lettere pervenutemi da un tempo che è accanto al mio, al nostro adesso, vivente ed esistito. Ho ascoltato gli uomini assenti, i carcerati senza speranza e paura, spenti e ancora vivi.

Il desiderio ci supera. La paura ci supera. Ci trascendono. Superano l’esistenza, vengono dalla vita. Il desiderio è un volere che non siamo noi a volere. Un volere senza volontà. Più vicino alla voglia. Una volere impersonale. Improprio. Come è la vita per il vivente. Impropria. Ciascuno è vita come vivenete ed ha vita come esistente. La che si è impropria. La vita che si ha è propria. La propria casa, il proprio lavoro, le proprie amicizie e relazioni, le proprie idee. La vita che siamo è impropriamente di noi che esistiamo. E la paura è l’imporprio. Il desiderio è l’improprio. Questa presenza inquientanete è di ciò che non si rappresenta pienamente nell’esistenza, e nel mondo. Ad essere veri bisogna stare a questa verità della vita che siamo. Impropria. Gratuita. Inordinabile. Viene alla voce, ma sfugge al significanto più pregnante che la inordina in un discorso.

Solo quando il gratuito diventa un dono assume anche il valore di ciò du cui essere grati. Bisogna donare la propria paura per essere veri. E’ gratuita. Come il desiderio è gratuito. Nasce improvviso. Altrettanto improvvisamente può dissoleversi. Bisogna donare la paura, bisogna educare il desiderio, volere ciò che si prenseta in una volontà impropria. Farla propria. Non per impradonirsene, ma per ospitarla. Nella nostra volontà ospitiamo una volontà che della vita ed è solo in questo scambio del gratuito nel dono che il desiderio diventa amore e la paura una passione lieta.

Diversamente la paura produce mascheramenti. Strategie di menzogne, fino a recludere, confinare, separare, non aprire. Non ci sarà mai condivisione se non metteremo insieme le nostre divisione, le nostre soglie e limiti. Non lo si può astrattamente. Occorre donare la paura. Non è da tutti, ma è da ognuno.

La paura genera superstizione. E’ una leva del potere. Sul piano sociale agisce come separatore e ingiunzione di dovere. Sarà ancora più evidente che non bisogna educare al dovere, ma al potere fare di cui il dovere è lo strumento, non il fine. Il fine del dovere è la potenza, non l’obbedienza. La potenza è il rovescio dell’obbedienza. La potenza è attiva, l’obbedienza è passiva, ed anche ingannevole. La potenza invece è pura manifestazione di presenza, di attesa, di attenzione.

Non dovete aver paura! O forse no, bisogna aver paura!? Può dunque la paura essere qualcosa che si può suscitare per urgenza, per necessità, per obbligo? Certo a scuola la paura è presente. Si fa uso della paura. Attraverso il voto, l’interrogazione, il giudizio. Adesso c’è la ripresa del voto in condotta. Dovrebbe far paura. Per questo si ha il facilitatore e si ricorre a mezzi sedativi, a minimizzare le difficoltà. Forse è proprio il posto della paura ad essere difficile da indicare per avviare un processo educativo, per apprendere. Non bisogna aver paura, ma forse dovremmo affermare che è da educare la paura, piuttosto che educare per mezzo della paura o educare alla paura. La questione passa di soglia in soglia dalla scuola alla società, dall’educazione alla politica, dalla formazione alla professione, da sé agli altri. La paura è proprio della relazione, ma è come un momento, arriva, non la si può decidere. La paura arriva quando non c’è relazione. Non la si può suscitare, accade. E’ la paura di fronte all’imprevisto, al non riuscire a dominare una situazione, a non trovare relazione tra ciò che avviene e ciò che lo determina. Oppure la paura di ciò che si è fatto. Ma allora la paura non trova più la causa come sua determinazione, la causa diventa la colpa. Sulla paura si sviluppa la coscienza morale, non l’etica.

Non bisogna confondere la paura con la preoccupazione. La paura è sempre al presente. Sempre ora. Adesso. Tale però da sconvolgere il presente e l’adesso. E presto ci accorgiamo che tutto il nostro ragionare e organizzare la nostra la vita, sul piano istituzionale, sociale, personale, non è nient’altro che stabilire un adesso, un’ora senza lasciare libera la paura, dominandola. Così ci procuriamo la soggettività,  diventiamo soggetti agenti, stabiliamo le nostre relazioni, avanziamo esorcizzando, eliminando, dominando la paura. Procuriamo anche finzioni di scena mostruosa, delittuose, per non avere paura.

Ma cosa è mai e da dove viene e dove ci porta la paura? Viene da altro, dall’altro, da ciò che è altro e che non si conosce. La prima paura, quella che dimentichiamo da bambini è la paura dell’ombra, ma anche la paura del cibo, quando si passa dal seno allo svezzamento. Il rifiuto di ciò che non si conosce. La paura è un sistema di difesa. Ma da chi? da cosa? Chi e cosa ci fa paura? Esistere. Non esito. E’ questo. Esistere. La paura è l’affezione dell’esistenza. La paura esiste, ex siste, viene all’esistenza dalla vita. Nella paura ci troviamo sulla soglia dell’esistenza e della vita, al confine. Possiamo perderla, ma è anche questo perderla che suscita insieme alla paura il desiderio.

La filosofia si spinge sull’abisso dell’esistenza, dove la paura diventa angoscia. I filosofi la conoscono come paura di nulla, come paura che viene dal nulla. E’ questa la distinzione che la filosofia ha segnalato tra la paura come affezione della coscienza e l’angoscia come affezione dell’esistenza. Non è la stessa. Sulla paura come affezione della coscienza è nata la morale. Sull’angoscia come affezione dell’esistenza è nata l’ontologia, la domanda sull’essere. Qualcosa che gli antichi non hanno conosciuto, perché si sono interrogati sulla sostanza dell’essere, su ciò che ci mantiene in esistenza nella vita, al mondo come commisurato allo splendore e al movimento degli astri, riposto sull’armonia dell’universo. L’ontologia si afferma invece come domanda sull’essere, sul senso dell’essere. Su come lo percepiamo e lo viviamo e così lo perdiamo e ci smarriamo. I Greci non hanno conosciuto l’angoscia. Non hanno saputo della paura del nulla. Sapevano del panico ed era la paura del tutto, pan, la paura della Natura, della Physis. Conoscevano il panico, la paura di quando ci sente soli nella natura, noi conosciamo la paura di quando ci si sente soli al mondo. Ed è diversa. La caverna di Leonardo è diversa dalla caverna di Platone. L’uno cerca di entravi, ne attratto e la teme. L’altro cerca di uscirne, di venire al mondo. La caverna adesso è il nostro animo. Il dentro noi.

I filosofi conoscono la paura, la colgono come angoscia, parlano della paura della coscienza e della paura dell’esistenza. Non si riferiscono ad un’analitica della psiche, ma ad un’analitica dell’esistenza.

I greci non avevano bisogno di una morale, perché sorretti, come dice Nietzsche, da un’etica quale espressione del cosmo, sul quale potevano scrivere la propria estetica, la propria rilevanza artistica. Noi invece costruiamo morali senza alcun fondamento etico. Confondiamo morale ed etica. Ci spingiamo a distinguere l’una dall’altra. Non comprendiamo ancora che l’una è dentro l’altra, ne è la pittura, l’interpretazione, la condotta personale. Estetica.

I filosofi conoscono la paura, l’angoscia, il non senso, per questo sono anche i più felici, per questo parlano della gioia ed ogni libro di etica finisce in gioia. I filosofi sanno della felicità. Sanno andare oltre la paura, oltre l’inganno e l’illusione.

Vado sui confini della città, dove la voce non trova parola o resta muta, dove la voce non trova ascolto e ha paura, lacerandosi in un grido o chiudendosi in silenzio. Quando entro in carcere, quando varco tutti quei cancelli uno dietro l’altro, non saprei dire se è la stessa paura del primo giorno sotto scuola, davanti alla porta dell’aula. Non so se sia la stessa di quel ragazzo di una scuola a Ponticelli, che ho trovato da solo, al corso di recupero, o di Luigi, il bambino solo all’ultimo banco. Non so se è la stessa  della ragazza di Giugliano che arriva all’ISIS “de Nicola” al Vomero, in quella scuola dove, ad ogni rampa di scala all’ingresso del piano, c’è un cancello. E’ aperto. Spero, credo, immagino, che non sia mai stato chiuso, ma è là.

Quando sono andato in carcere insieme ai miei studenti, c’è stata una ragazza che ha chiesto a quanti vivono l’ergastolo rinchiusi là dentro se avessero paura. Sì, ha risposto uno di loro, paura di uscire fuori.

E’ necessario avere paura. Senza non c’è l’io. Senza si è senza difese. Ho conosciuto una bambina nella scuola di Caserta. E’ brasiliana. Ha l’insegnante di sostegno. Ha dodici anni. E’ in quarta, con bambini che di anni ne hanno nove. Non parla. Ha un sorriso tenue sulle labbra. Occhi grandi. Qualunque cosa le chiedi e le dici, non risponde. Mantiene il suo sorriso, arrendevole, sul quale ti devi arrendere. Non ho mai trovato chiusa una porta così socchiusa. Chiusa perché dallo spiraglio sull’uscio non arriva luce. Non ha disturbi. Sa parlare italiano, ma è come “anoressica”, non parla. Non vuole parlare. Neppure è giusto dire “non vuole parlare”, perché neppure questo vuole. E’ con la sorella in Italia, a Caserta. Il fratello è in Brasile, così pure la mamma. E’ una bambina adottata. Troppo grande per essere adottata e per potersi costituire una memoria che trovi intralcio su un’altra precedente memoria.  Si difende così. Neppure più ha paura. E’ come insensibile, lei che è così sensibile sostenendosi in quel sorriso. Ha scritto che non ha paura. E’ stata come travolta dalla paura.

Un bambino di un rione assai difficile di Pozzuoli diceva pure di non avere paura. Non sentiva nulla. Il padre morto ammazzato, la madre in prigione. Chi non ha paura nemmeno più ha un io, nemmeno è sulla soglia che è tra la vita e l’esistenza, tra il desiderio e la paura di vivere e di esistere.

 

Imparare ad amare

Bisogna imparare ad amare. L’aforisma di Nietzsche recita, si deve imparare ad amare. L’amore toglie la paura? La trasforma. Questo esercizio di trasformazione dei sentimenti è il solo esercizio d’amore. Bisogna imparare ad amare, ma l’amore non toglie la paura, la trasforma. La paura diventa timore. Il timore è l’espressione di una relazione, di un legame. E’ Agostino che nel suo discorso sulla paura (Discorso 348) parla così dell’amore e del timore. Chi ama dio ha timore di dio. Timor, non metus, avrebbero precisato i latini. Timor. La radice della parola ci porta al greco. Il timore è il rispetto che si ha per ciò che si stima, perciò che si venera. Il timore porta la paura a confrontarsi sulla verecondia, sul pudore. Sono queste tonalità di trasformazione della paura che spettano all’amore, all’imparare ad amare.

E tuttavia non basta. Bisogna educare la paura e educare è un modo di amare. Significa stabilire una relazione che trasforma, una relazione di cammino, di formazione, di trasformazione, di desiderio.

Non bisogna educare con la paura, bisogna educare la paura, che significa educarsi alla propria solitudine. A stare da soli. Non isolati. A sentire. A sentirsi. A farsi strumento. A fare del corpo proprio uno strumento di melodia. C’è quel bellissimo aforisma di Nietzsche che parla dell’educazione come melodia quando la singolarità del proprio accento si unisce in armonia ad altri accenti. Il tempo interiore. A questo occorre che ci si educhi educando la paura, incontrando il desiderio e insieme consegnarsi all’educazione amorosa. A risuonare in se stessi e insieme. La parola “libera” dalla paura, ma solo se “libera” la paura, se la trasforma da affezione ad affetto, trasformandola in sentimento.

Bisogna donare la propria paura per essere veramente ciò che si è: vivente esistente. Vivendo esistendo. E non per esistere senza vita. Donare la propria paura si può solo abbandonandosi a chi si ama, amando.

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