Lido Pola per un’economia senza proprietà

Giugno 14, 2015 Posted by Approfondimenti 0 thoughts on “Lido Pola per un’economia senza proprietà”

Ieri a Lido Pola, Luca, Domenico, Franceschina, Lorenzo, tutti. Lido Pola è un luogo di confine. Lo indicano i tratti divenuti simbolici da quelle parti, in fondo al molo si trova Nisida, l’isola che non c’è, perché sottratta alla città, sede di carcere di ragazze e ragazzi, appena prima di arrivarci, è la sede NATO, mentre, a monte, da un lato c’è la grotta di Seiano, la galleria che porta in un altro mondo di storie e ricchezze, dall’altro lato poi i resti dell’Italsider, un tempo Ilva e un tempo, ancora prima, Armstrong, ci ha lavorato anche mio nonno, per dire quanta città ci è passata prima ancora che costruissero la periferia operaia all’inglese del quartiere di Bagnoli. Dall’alto c’è il Parco Virgiliano, un altro mondo ancora, che non avrebbe mai immaginato quel che sarebbe accaduto là sotto. E là il mare, che “sta sempre là, tutte spuorco, chine ‘e munnezza ca nisciuno o po’ guarda’”. Lido Pola, un tempo c’era il ristorante, che affacciava sul pare pavimentato di barche ormeggiate una dietro l’altra, una vera distesa. C’erano anche i pescatori che resistevano a fare i “guardiani” di macchine e barche, insieme si contendevano il “tenore di vita”, si dice proprio così “tenore”, che indica anche un registro di voce di quelle voci che non ci sono più. L’aria adesso risuona di silenzi di giorno come di luoghi perduti e ritrovati. Di notte si scatena invece il fracasso di musiche da discoteca e di auto nervose di traffico. Di tutto questo il sole non sa niente e non ne vuole sapere, siamo noi a raccontarci nel tempo un altro tempo, altre storie, qui dove si viene su un confine della Città.

Siamo là in quella sala ritrovata e “rifrabbrecata” dalle mani di Luca, Domenico, di tutti che da due anni e più di tanti giorni che fanno calendario di tutta un’altra storia appena cominciata. I luoghi si liberano occupandoli. In questo caso ci si insediati in un luogo abbandonato, dismesso. Non è allora un’occupazione e non è una liberazione, ma un’obbedienza virtuosa alla vita, alla bellezza, alla memoria di tante storie che quel luogo suggestiona. Chiunque di noi ci è arrivato, in ogni età, di un giorno, di un anno, anche solo per affacciarsi dalla terrazza della curva sulla rampa che sale al capo di Posillipo. Come un corpo è questa città, che curiosamente nomina ogni volta solo il capo, perché ricomincia sempre e sempre sta in piedi, e poi il “capo” è “prima”, “all’inizio”, e “in alto”. Sant’Aniello a cape e Napule, o capo e Pusillepo, a Capa e Napule … n’capa, ncoppe, e abbascio, addo sta sempe ‘o mare. È così questa Città, che vuole vivere ancora e sempre delle sue arie, del mare, delle voci della gente che la vive.

I luoghi sono le persone che li abitano, vi hanno casa, vi lavorano, li camminano, vi si s’incontrano, stanno assieme. E quando un luogo viene abbandonato anche le persone che lo abitano vengono lasciate sole. E questo è da pensare: quando un’economia consuma la storia delle sue forme, del suo potere, delle sue relazioni di schiavitù, di servilismo, di salariato, parola che sa di sale. Quando si dismettono i luoghi di una storia di vita di lavoro, si dismettono anche abitudini, relazioni, tradizioni, si perde una quotidianità, una “sicurezza”, l’attesa di domani. Quando l’Italsider ha chiuso, prima a poco a poco, tra i singhiozzi di scioperi e occupazioni, proteste, scontri, e poi per sempre, un giorno, quello che è venuto, allora il “giorno dopo”, non è stato come quello atteso, ci ha lasciati impreparati a cercare un tempo che non c’era prima, lasciando i luoghi frequentati a poco a poco a consumarsi come una memoria che sbiadisce. Lido Pola è il simbolo di questo confine da un giorno all’altro, da una storia a un’altra storia, da una pietra a un’altra, da voci ad altre voci. A poco a poco, e questa volta sarà una liberazione, forse, chissà, bisognerà occupare l’isola e prendersi Nisida.

C’è la bocca aperta del commissariamento di Stato sul Lido Pola come su tutto il litorale di Bagnoli. C’è la bocca spalancata della speculazione pronta a riprodurre un’economia di potere, di colonizzazione, di proprietà.

La Città sta scoprendo la fine di un imperativo economico che lascia e abbandona come in fuga i resti che furono di un potere che si distende altrove sul pianeta e ridisegna i programmi geoindustriali, perché la ricchezza si fa sull’uso dei corpi, altrove, o facendoli arrivare da altrove.

Lido Pola è diverso dall’ex Asilo Filangeri, come dalle strutture occupate nel Centro Storico della città. Qui si tratta di rendere “storico” un nuovo insediamento. Diversa è la collocazione urbanistica, qui si tratta di riabitare, di fare economia per altre forme di relazioni e di comunità.

Qui la gente viene e se ne va, è un confine, bisogna allora abitare questo confine, inventare nuove scuole e liberare desideri, operare servizi comuni, in comune. Qui s’impone una svolta audace, che faccia memoria di quel che già sta accadendo in questa città. Qui è il capitolo di un insediamento di vita del tutto diverso. I confini di una città sono fatti di voci, da qui bisogna che le voci prendano parola per nuove forme di abitare, per un’economia senza proprietà.

Bagnoli è stato la punta occidentale di produzione e di ricchezza della Città, dismessa, ora, da qui, può cominciare un’economia senza proprietà, un’economia del possesso senza proprietà. Fin qui il valore di scambio e il valore d’uso sono rimasti separati, giusto a salvaguardare il potere economico della proprietà. È questa, la proprietà, che separa valore di scambio e valore d’uso. Una forbice resa ancora più larga dalla distribuzione che mantiene distanti i due valori fino a essere il riflesso d’ombra minacciosa alla pareti delle case dell’altra forbice, quella di privazione e privilegi, sempre più distanti. Sul piano giuridico si avanzano i diritti per scrivere nuove separazioni. In quella forbice si dà il taglio definitivo allo Stato Sociale, facendo precipitare nel vuoto le misure sociali e i servizi pubblici. Questo Stato è senza società, non è più uno stato sociale, perché il sociale è sempre più calato nella commissione privata e nei commissariamenti che aprono ancora di più la forbice tra l’uso e lo scambio. Qui dobbiamo riflettere sul senso, la misura e la soggettività di quel che si chiama volontariato. Bisogna passare oltre. La posta in gioco è sempre là, la merce, che prende sempre di più la connotazione della mercificazione, qualcosa di diverso dall’alienazione di un tempo. La merce è il corpo proprio, qui passa lo scambio e l’uso. L’intreccio è come sempre speculare del suo capovolgimento. Bisogna allora riprendere le “frasi fatte” a “uso e consumo”. Bisogna cambiare il linguaggio, raccogliere altre ragioni per altri rivolgimenti. L’uso è lo scambio, il possesso è il passaggio, la proprietà è rendita, ferma, oppone, cintura, confina.

Il possesso senza proprietà è la chiave di volta di un’economia che rimette su un piano del tutto nuovo il rapporto tra scambio e uso modificando le relazioni che vi corrispondono. Lido Pola può essere un luogo di un’economia del possesso senza proprietà ovvero di uno scambio dell’uso, di un passaggio, facendo del possesso un bene comune di altri in altri, in una misura del tempo sociale. “comune” è quel che è proprio e improprio. Non c’è altra definizione, bisogna aver cura come di qualcosa di proprio di ciò che è improprio, di tutti e di ognuno. Lido Pola è uno spazio per dar luogo a un tempo diverso che modifica la destinazione degli spazi, senza proprietà facendone un bene comune sociale.

Non sarà allora solo un luogo di servizio del “dopo” lavoro o del “dopo” scuola o del “tempo libero”, questa logica del “dopo” deve essere invertita, deve diventare “prima”, assumere il valore di una priorità o semplicemente del prima di un tempo che viene, che costruiamo, che raccontiamo per un’altra storia. Il lavoro deve ridiventare arte di costruzione di relazioni e forme di vita per una comunità sociale e una società comune. Il lavoro deve essere sociale, in comune, partecipato. Può essere anche come nell’esempio di un ristorante popolare, dove ci sono i pescatori e i cuochi, i fruttivendoli e i droghieri, facendo anche spesa dei prodotti a scadenza o andando per le campagne e gli orti nei dintorni. Quella del ristorante è un’immagine, ma è anche quella che rende la misura per ogni altra di servizio produttivo di ricchezza e gioia, per il suo essere di ristoro e comune di tanti parti che possono stare insieme soddisfacendo il bisogno di tutti col desiderio di ognuno.

Sarà lo stesso con l’invenzione di una scuola, di un tempo diverso di apprendere e sapere, mettendo insieme scelte e conoscenze, facendo a meno di competenze e competizioni.

Viene facile proporre subito la festa aprendo per una sera il ristorante dove ognuno porti piatti e posate coinvolgendo arti e mestieri.

Ieri è stato un pomeriggio di sole al confine della città, dove la città si può sognare e dove il sogno è il sole che viene dal mare e colora i volti di chi sognando insieme ne riluce.

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